2011 Sull’acqua benedetta

Massimo Angelini

SULL’ACQUA BENEDETTA

Esteriormente l’acqua santa non è diversa dalla normale, ma scaccia i demoni, guarisce dal malocchio ed è d’aiuto contro i malanni.
Pavel A. Florenskij [1]

In questo spazio di dialogo tra storici e scienziati, desidero proporre alcune considerazioni intorno all’uso popolare dell’acqua benedetta, argomento di prevalente competenza dell’antropologo o, per altri aspetti e da una prospettiva del tutto differente, del teologo. Non sono un teologo e non scrivo da antropologo, ma presento questo argomento come se parlassi di una terra di confine dai contorni incerti, dove l’uso popolare incontra la metafisica e apre uno spazio di riflessione sull’ontologia, e ne scrivo pensandomi partecipe a modo di pensare il mondo dove questo argomento non è distante da chi l’osserva, non è altro, ma ha valore.

*

Cosa sia l’acqua benedetta, detta anche “acqua santa”, lo sappiamo tutti, se non altro perché tutti siamo stati bambini e l’abbiamo incontrata nell’acquasantiera in chiesa, in prossimità dell’ingresso. Nel mondo rurale era abituale attingerla al fonte battesimale nelle feste pasquali e conservarla in casa, di solito in una ciotola, una bottiglietta, una conchiglia, una coppa di metallo o di pietra, murata nell’angolo delle stanze da letto: [2] serviva per segnarsi la sera prima di coricarsi e la mattina al risveglio; c’era chi ne portava un po’ con sé in viaggio; chi la usava per benedire le case, i terreni, i raccolti e, qualche volta, anche i pasti. Già, perché un tempo il cibo si benediceva: oggi si sceglie, si giudica, si guarda con sospetto come minaccia per la linea o la salute, si sciupa: una volta, nel tempo della carenza, se ne teneva di conto e si benediceva con gratitudine. Non so immaginare quanti ancora usino benedirlo. E non so, tra tante acque profumate, deodoranti, medicinali, oligominerali, quanti ancora tengano in casa l’acqua benedetta; eppure non è distante da noi: è servita per battezzarci appena nati e probabilmente un giorno sarà sparsa sulla nostra bara.
È acqua, ma è particolare – come, nella citazione che accompagna il titolo, osserva Pavel A. Florenskij – e aiuta contro i malanni quando si impiega durante alcuni riti terapeutici, come le segnature: cure popolari diffuse soprattutto nel mondo rurale (dove ancora oggi sono utilizzate più di quanto chi sia esterno a quel mondo possa immaginare), usate per curare alcune malattie o semplici disturbi: le infiammazioni della pelle, le distorsioni e le slogature, i porri, le verruche, le emorroidi, i dolori mestruali, la tosse, le febbri, gli ossiuri (i “vermi” dei bambini), l’orzaiolo, l’herpes, il mal di testa; si segnavano anche la “paura” (ansia) e il malocchio. Nelle segnature l’acqua benedetta è associata a elementi semplici ma di grande valore simbolico (l’olio, il pane e il sale, il lievito, la cenere …), a gesti e segni particolari, soprattutto il segno della croce, e a formule di invocazione, preghiera o scongiuro. [3]
Vorrei soffermarmi e portare un dato di semplice esperienza per osservare che, negli anni di ricerca trascorsi nelle campagne a raccogliere testimonianze di vita e cultura, ho sentito numerose volte descrivere le forme e gli usi delle segnature e neppure una sola volta ho sentito che la cura non fosse andata a buon fine e la persona così curata non fosse guarita. Suggestione o reale azione terapeutica?
Nel mondo cattolico – e a questo mi riferirò nel seguito della riflessione – l’acqua può essere benedetta solo da un sacerdote o da un diacono: loro a parte nessun altro può benedirla e, indipendentemente dalle loro qualità morali e dai costumi personali, conferirle quella natura particolare che permette di impiegarla, di volta in volta, in una funzione curativa, protettiva, consacrante e guardiana, per allontanare il male e cosa può nuocere.
Oggi la benedizione avviene attraverso un rituale semplice fissato, all’interno del Benedizionale approvato nel 1984, nel capitolo dedicato alla benedizione dell’acqua lustrale[4] Dopo alcuni momenti di raccoglimento e preghiera in comune e letti alcuni passi tratti dalle sacre scritture, il sacerdote impartisce la benedizione con la formula

Sii benedetto, Signore, Dio onnipotente, che in Cristo, acqua viva della nostra salvezza, ci hai colmato di ogni benedizione e hai fatto di noi una creatura nuova. Fa’ che, mediante l’aspersione e il devoto uso di quest’acqua, richiamiamo la realtà del Battesimo, perché purificati e fortificati con la grazia del tuo Spirito, ricuperiamo la giovinezza interiore e camminiamo sempre in novità di vita.
Per Cristo nostro Signore. [5]

Invece, prima della revisione del Rituale Romanum, avvenuta sulla scia delle riforme dettate dal Concilio Vaticano II (1962-1965), [6] la benedizione avveniva secondo un rituale più complesso, fissato nel 1614 sotto il pontificato di Pio V, [7] dove l’acqua era esorcizzata insieme con il sale, come illustra la disposizione che ne parla (Ordo ad faciendam aquam benedictam).

Io ti esorcizzo, creatura di sale, per il Dio + vivo, il Dio + vero, il Dio + santo […]  affinché l’acqua sia guarita dalla sterilità, e tu divenga sale esorcizzato per la salute dei credenti e per tutti coloro che ti assumono per la salute dell’anima e del corpo, e dal luogo dove sarai asperso sia fugata e allontanata ogni illusione, malizia e astuzia del diavolo e sia scongiurato ogni spirito immondo […]. Io ti esorcizzo, creatura di acqua, in nome di Dio + Padre onnipotente, e in nome di Gesù + Cristo, suo Figlio e nostro Signore, e per la virtù dello Spirito + Santo, affinché tu divenga acqua esorcizzata per mettere in fuga ogni potenza del nemico, e sradicarlo e sconfiggerlo insieme con i suoi angeli apostati … [8]

ed entrambi – l’acqua e il sale – erano infine mescolati con un segno di croce ripetuto tre volte insieme con la formula «la mescolanza del sale e dell’acqua si compia insieme. Nel nome del Pa+dre e del Fi+glio e dello Spirito+Santo. Così sia»[9]

Così era benedetta – anzi “esorcizzata”, purificata dal male – l’acqua che al cuore di ciascuno riconduceva la memoria del proprio battesimo e, di volta in volta, aveva il potere di benedire i vivi e chi è morto, le case, le campane, gli animali e le cose, curare la salute, fare cessare i dolori, proteggere i luoghi e i raccolti, donare la fertilità, allontanare il demonio, le tempeste e le epidemie.
L’acqua consacrata resta tale anche dopo il suo uso; eppure in alcune chiese – come in quella copta e in quella siro-orientale – dopo il suo uso per il battesimo o la benedizione è “sconsacrata” attraverso una reghiera nella quale a Dio si chiede che la trasformi «nella sua natura anteriore affinché ritorni nuovamente alla terra ove prima si trovava». [10]

Intorno a questo argomento, vorrei accennare ad alcuni spunti di riflessione che penso potrebbero bene adattarsi, in generale, anche ad altre forme paraliturgiche e ad altre espressioni della religiosità popolare. [11]

1.
Per quanto sappiamo, la benedizione non modifica la qualità dell’acqua, né in senso fisico né chimico, eppure, per chi crede nella sua efficacia, succede qualcosa che ne cambia la natura e, attraverso la benedizione, le conferisce un potere reale. Questo potere non ha propriamente a che fare con la composizione dell’acqua o con quella del sale, né dipende dal suono delle parole o dalla geometria dei gesti che accompagnano il rito di benedizione, ma sussiste perché l’acqua, il sale, le parole e i gesti, associati nel rito, diventano simbolo: e attraverso il simbolo il mondo visibile e quello invisibile entrano in contatto e si manifestano compresenti, come le due sponde collegate da un ponte, come l’esterno e l’interno uniti da una porta aperta.
Se un tale potere – che applicato, per esempio, alla cura delle malattie permette di andare contro od oltre l’ordine naturale delle cose – dipendesse solo dagli elementi e dalle procedure che compongono il rito, tralasciando l’apertura sul mondo invisibile (se si vuole, tralasciando la grazia e la volontà divina), probabilmente ci troveremmo di fronte a una pratica di magia, per alcuni ascrivibile solo al mondo della superstizione, per me ascrivibile al nulla. [12] Ma vedere sotto questo aspetto l’uso dell’acqua benedetta sarebbe una semplificazione, un fraintendimento di sapore razionalistico, la negazione di un sapere condiviso dall’umanità in forme diverse nei diversi luoghi e in ogni tempo.
La qualità simbolica legata al rituale di benedizione, quella qualità che inerisce all’unione tra i mondi e alla manifestazione della loro compresenza, viene da lontano, è testimoniata nelle scritture sacre di Ebrei e Cristiani, nella nostra tradizione patristica, e compare nella letteratura e tra i culti di molti popoli, ma soprattutto è stata testata da innumerevoli persone senza nome ed è stata convalidata nella consuetudine delle comunità lungo il corso dei secoli. Così racconta l’uso comune dell’acqua benedetta tra la gente di popolo che – incoraggiata con cautela dalla Chiesa – ha valicato l’orizzonte del culto per accedere ad alcuni spazi della vita quotidiana ancora riconducibili alla dimensione di cosa è sacro. Sono gli spazi segnati dai momenti critici, quelli legati alla paura e all’incertezza, dove essa accompagna le terapie di fede, i riti di protezione delle persone, delle case e dei campi, il ringraziamento a tavola, la benedizione serale dei figli, e dove è viatico nel viaggio e nell’affidamento a Dio. E la stessa gente di popolo in questi spazi la amministra senza altra mediazione, nello stesso modo come amministra altri gesti che vivono ai margini della liturgia: dalla recita del rosario, all’uso di medaglie benedette, all’esposizione di immagini sacre o di soggetto religioso. Per la gente di popolo il valore di verità di questi atti e la loro aderenza a un contatto reale tra il mondo visibile e quello invisibile non dipendono necessariamente dall’asseverazione delle autorità ecclesiastiche, ma sono sanciti dalla continuità dell’uso, riaffermati dalla voce comune, convalidati da una ininterrotta tradizione dottrinale e, ancora di più, comunitaria, e da un uso raffinato e riproposto nel tempo paziente delle generazioni. E l’aderenza alla realtà di ciò che è riconosciuto nella consonanza delle generazioni e, con prudenza, è consolidato in un sapere canonico ha un valore oggettivo: un valore che, fino a un nuovo diverso riconoscimento lentamente, anch’esso accolto e validato nel respiro lungo del tempo, è in sé probante.
I gesti e le sensibilità condivise dalla gente hanno in sé un elevato grado di aderenza alla realtà interiore delle cose che non necessita di dimostrazioni, tale da lasciare pensare, per esempio, che c’è più profondità ontologica, più verità, più aderenza alla realtà così come ci è data, in un rosario recitato con devozione e modestia che in un ponderoso trattato di teologia.

2.
Il rapporto tra la fede e l’efficacia dell’acqua benedetta è complesso e si articola su piani sottili. Per comprenderlo può servire tornare all’esempio delle segnature, il cui presupposto senza il quale il rito non può essere del tutto efficace è proprio la fede di chi lo esegue. Chi cura con le segnature lo sa e lo testimonia. [13] E l’efficacia è ancora maggiore se il rito è accompagnato dalla fede di chi riceve la cura. Tuttavia, anche in assenza di fede, si ritiene che il rito di cura, proprio perché ha in sé il potere di assicurare il contatto mistico tra i mondi, una qualche efficacia l’abbia comunque. E parliamo di cura non di guarigione, perché chi esegue la terapia della segnatura si limita a curare; poi, chi guarisce è Dio, non il medico né il curatore, e lo fa guidando la natura o contraddicendone il corso nella libertà della propria volontà. [14] Comunque per la gente di popolo, benché determinante, la fede da sola non sarebbe sufficiente: senza simboli visibili fatti di gesti, parole, oggetti, essa resta astratta, eterea, non comprensibile. I simboli rendono visibile e concreto il contatto con il piano della trascendenza, dal quale proviene il soffio della grazia. È un terreno, quello della religiosità popolare, sottile e accidentato, da dove è facile scivolare nella superstizione o nella credenza magica, ma è il terreno dove la metafisica diventa concreta.
Diversa da quella popolare, invece, è la prospettiva di chi ritiene che l’efficacia dell’acqua benedetta sia legata e, in un certo senso, proporzionata esclusivamente alla fede di chi ne fa uso; [15] e così giudicando afferma che fuori dalla sola fede nella grazia che può agire sugli uomini, le cose e la natura, l’uso dell’acqua benedetta è solo una pratica superstiziosa. [16] In questa posizione spinta fino alle più estreme conseguenze, così come nel passaggio dalla formula stabilita sotto Pio V al Benedizionale postconciliare, si possono intravedere le tracce di un percorso di depurazione alle manifestazioni concrete del culto vòlto a recintare la relazione tra il mondo visibile e quello invisibile entro i confini della dialettica tra fede e grazia, eliminando ogni tramite simbolico naturale, concreto e visibile, più semplice da comprendere per la gente di popolo. Tra le maglie di questo percorso di depurazione del rito dai simboli e dalle procedure più facilmente accessibili alla coscienza comune, parrebbe di leggere la tensione verso un rapporto con il divino di impronta sempre più razionale, orientata a una progressiva rarefazione del culto verso una totale trascendenza: ciò che, se così fosse, potrebbe fare pensare a una difficoltà segreta, forse inconfessabile, di accettare pienamente quell’Incarnazione del trascendente nell’immanente, del cielo nella terra, dello spirito nella carne, del divino nell’umano, dell’assoluto nel relativo, dell’eternità nella storia, altrimenti fissata come verità certa e fondante.
Per la teologia razionale può bastare la sola fede; mentre per la religiosità popolare non si può fare a meno dell’elemento concreto e visibile che veicola la grazia: senza, il rito è incorporeo, astratto, inaccessibile all’esperienza. L’atteggiamento razionalista che disprezza questo piano coltiva la separazione ontologica tra la trascendenza e l’immanenza, per espellere quest’ultima dal piano della realtà.

3.
L’uso dell’acqua benedetta è stato oggetto di ampia trattazione nella letteratura antropologica dove comunemente, insieme con altre espressioni della religiosità popolare, è ricondotto all’aspetto di residuo arcaico di una religiosità naturale, o a una matrice precristiana legata ai culti di fertilità e delle acque. Un residuo cultuale, dunque, sopravvissuto nel tempo in forma adattata, quasi mimetica, persistente nel lungo periodo, al pari di usi e concezione remote che provengono da un tempo che si pone oltre l’orizzonte della memoria storica. Come scrive Paolo Sorcinelli:

Fino ad anni recenti sono sopravvissuti i riti religiosi della benedizione delle campagne con l’acqua santa, introdotti da papa Stefano VI nell’IX secolo Rimossi soltanto con la fine della civiltà contadina negli anni cinquanta, tali riti avevano lo scopo di “salvaguardare i frutti della terra dagli insetti, dai topi, dai serpenti e da altro spiriti immondi”, [17] nonché dalle grandinate, dalle gelate fuori stagione e da tutte le calamità meteorologiche e avrebbero potuto compromettere i raccolti. [18]

Si tratta di un residuo da ascrivere alla categoria del pensiero magico-religioso, comune nello scorso secolo, alla cui osservazione si sono applicati studiosi di indiscussa acutezza e competenza: scandaglio nella memoria e mi tornano alla mente storici sensibili ai temi dell’antropologia come Carlo Ginzburg e Franco Cardini, storici delle religioni come Mircea Eliade, [19] un’intera tradizione di antropologia culturale che attraverso Claude Levy-Strauss ed Ernesto De Martino arriva fino ai nostri giorni. Sotto la lente di questa categoria le segnature di fede, più in generale i comportamenti e le pratiche religiose della gente di popolo, così tenaci e persistenti nelle campagne, sono state lette come spazi d’incontro, commistione e contaminazione tra permanenze cultuali pagane, di natura magica, forse di origine sciamanica e nuovi elementi cultuali introdotti dal Cristianesimo: in questo senso, sulle tracce della scuola gramsciana, si è parlato anche di “sincretismo pagano-cristiano”. [20] Ma tutto ciò è stato interpretate anche in chiave strutturalista, e le forme di devozione e di contatto con il divino sono state viste come elementi costituivi di equilibri e dinamiche sociali.
Nelle pratiche cultuali e nei rituali dei complessi apparati presenti nelle grandi religioni o di quelli più ristretti e individuali dell’ambito magico-religioso, la preghiera si presenta come una particolare struttura di comunicazione – strutturata e strutturante nell’orizzonte simbolico – con la quale gli oranti – costituiti da specialisti del sacro (sacerdori, religiosi) e da laici o fedeli (non specialisti, ma fruitori dei beni del sacro) – comunicano con le “divinità” solitamente considerate in una dimensione e in una realtà che trascende quella oggettiva fisico-naturale. […] In pratica, in diversi scongiuri si verifica l’esito di un complesso sincretismo magico-religioso nel quale sono presenti moduli, contenuti, gesti cerimoniali, operazioni simboliche, ecc. che, all’origine, risultano elaborati e  diffusi da élites di tipo intellettuale, ovvero da operatori del sacro, che, soprattutto nelle grandi religioni, sono socialmente strutturati in caste sacerdotali specializzate nella produzione, conservazione e diffusione tra i fedeli di ideologie religiose riguardanti i “beni di salvezza” […]. [21]
Oltre agli antropologi e agli storici della cultura che nell’uso popolare dell’acqua benedetta hanno riconosciuto una testimonianza della permanenza di culti precedenti e, dunque, un elemento di resistenza verso l’avanzata aggressiva di una cultura egemone impersonata dalle Chiese cristiane, non manca chi, più sensibile ad aspetti di carattere esoterico, si è spinto fino a vederci la corruzione di elementi ancestrali, di riti iniziatici, risalenti alla dimensione del mito. [22]
In tutte queste prospettive si possono trovare osservazioni e conclusioni del tutto condivisibili: non c’è alcun dubbio che le forme della religiosità popolare affondino le radici in culture arcaiche e in traduzioni di un rapporto archetipico con il sacro e la trascendenza; né c’è alcun dubbio che tali forme siano entrate in conflitto o in dialettica con quelle emergenti e poi prevaricanti del culto disciplinato dalla Chiesa, rappresentando così trincee di contrapposizione al processo che ha accompagnato l’espansione e il radicamento del cattolicesimo nelle campagne. Scrive su questo punto Carlo Ginzburg:

La penetrazione della Chiesa nelle campagne aveva inferto un colpo definitivo al mondo magico contadino. Certo, esso non scomparve (non è scomparso nemmeno oggi): ma la sua pericolosità per la gerarchia divenne minima. Ormai le credenze magiche non potevano più porsi come una cultura in qualche modo alternativa: potevano soltanto mescolarsi alle credenze cattoliche, e sopravvivere in forme via via più marginali.[23]

E nel folclore religioso vediamo come la Chiesa, fino a dove ha potuto, ha incorporato quelle forme, delle quali ancora oggi sono ben riconoscibili le origini esterne al cristianesimo, per quanto mascherate e adattate.
Sulle acquisizioni e sui risultati messi in luce dall’antropologia e dalla storia della cultura e delle religioni forse non c’è nulla da aggiungere, se non suggerire un atto di cautela per gli aspetti rivelanti ma anche deformanti che comportano le modalità semiologiche, tese a tradurre tutto ciò che vive in segni da spiegare. E qui, a mia volta, provo a spiegarmi.

4.
Un punto di vista orientato secondo una prospettiva ontologica conduce a osservazioni e conclusioni differenti, e persino opposte, a quelle alle quali conduce un punto di vista orientato secondo una prospettiva semiologica. Attraverso la prima – abbiamo già visto – l’acqua benedetta si presenta come un simbolo sacro, secondo il significato originario e profondo di questa parola per indicare ciò che “mette insieme”, unisce in senso metafisico, vive nell’incontro del mondo visibile con il mondo invisibile, partecipa di entrambi e di entrambi manifesta la compresenza, nello stesso tempo è materia visibile e sostanza invisibile. Ma tutto questo, in una prospettiva semiologica che legge cosa esiste all’interno di un rapporto tra segni e significati, non ha molto senso: l’acqua benedetta non è che l’elemento di un linguaggio sociale, all’interno di un sistema di segni che rinvia ad abiti mentali, a usi comunitari, a significati traslati ecc.; per il resto è solo acqua.
La prospettiva semiologica è propria di ogni lettura del mondo fatta sotto il segno di una razionalità inabile ad ammettere una realtà che travalichi i limiti fissati dai propri assiomi e dalle proprie procedure di conoscenza. La ragione autolimita il proprio campo d’indagine e confina le proprie capacità di comprensione a ciò che può spiegare attraverso i propri strumenti, basandosi sui principi e criteri di identità, non contraddizione, determinazione, continuità di causa-effetto, ripetibilità.
Diverso è l’altro approccio, quello fondato sul realismo, su ciò che esiste non perché è comprensibile ma perché accade e vive al di là sua riducibilità a categorie note e a conseguenze coerenti con le premesse. Il punto di vista ontologico coglie l’unità indivisibile delle cose, mentre quello semiologico le dissocia e separatamente o comparativamente ne analizza le componenti. In questo senso si coglie una modalità riduttiva, un fragile rispetto della realtà, quando si riconducono forme di culto o devozione popolare solo a un mosaico di elementi preesistenti o innovativi, di ciascun elemento ricostruendo la “genealogia” e il mutamento nel tempo.
Perché queste osservazioni sui limiti di una prospettiva semiologica? Perché, al di là dei richiami storici o letterari, dei riferimenti all’aqua lustralis, ai culti delle acque sacre e ai loro poteri taumaturgici, della loro ricorrenza nei miti e nei riti di fertilità e abbondanza, al di là della persistenza sotterranea di culti arcaici, ridefiniti e incorporati nell’ortodossia cultuale attraverso la grammatica della Chiesa, al di là di tutto questo, non dovremmo perdere di vista che l’uso dell’acqua benedetta – e potremo estendere questa considerazione a ogni espressione di religiosità popolare – è una monade della cultura, in sé integra e organica, che vive nella propria interezza ed è in questa interezza che per la gente è efficace. Non è lecito scomporre una monade culturale più di quanto sia lecito farlo di una frase o di un organismo. Distinguere, per esempio, nella segnatura di fede impartita con acqua benedetta, con segni di croce, con elementi semplici di grande valore simbolico e con preghiere, cosa è pagano e cosa è cristiano, cosa è magico e cosa è fokloristico, oppure inserire il gesto in una sinossi di comparazioni, ne fa perdere di vista quell’aspetto coeso e unitario che dà forma a una pratica ripetuta con efficacia – lo testimonia le gente che a essa ricorre con fiducia – nel tempo lungo e nel consenso delle generazioni.
La segnatura per scongiurare la malattia, l’aspersione dei campi dopo la semina o del corpo prima della sepoltura, lo stesso segno che con l’acqua si fa quando si entra in chiesa o prima di andare a dormire sono atti complessi che, dentro un lessico di fede e di cultura, vivono unitari e non frammentabili. Monadi di cultura che non sono più o meno di qualcosa, che non hanno parti costituenti scomponibili e riassemblabili. Vivono nella loro unità. Come individui.
Un uomo fatto a pezzi e ricomposto non è più quell’uomo, ma un fantoccio senza vita. Gli atti di cultura e di fede sono altreettanto vivi. Eppure non manca chi nei loro confronti pratichi la disgregazione dei suoi elementi, per analizzarli gli uni separatamente dagli altri, in interpretazioni regressive, genealogiche. Fa così chi di fronte all’atto devoto del segno di croce si limita a vedere un segno pre-cristiano che rinvia a culti solari; fa così chi nel gesto che accompagna la mano all’acquasantiera si limita a vedere una reminiscenza di riti della fertilità che rinviano alla grande dèa sulla quale poi si innestano, come avatar di una medesima presenza mitica, le figure di Iside, Gea e Maria vergine e così a piacere.
Scindere l’integrità di ciò che vive e analizzarne i singoli costituenti non aiuta a comprenderne il significato né il segno esistenziale. Sarebbe come di una persona analizzare la genealogia delle singole caratteristiche e chiedersi da dove ha ereditato gli occhi, la statura, la voce …: tutto questo può restituire informazioni frammentarie, ma della persona nella sua interezza non dice nulla. Da un punto di vista realistico, dal punto di vista della natura ontologica del gesto, la benedizione con l’acqua santa va letta senza frammentazione delle parti che compongono il rito. Poi resta vero che un gesto ha una storia, è analogo ad altri gesti o ad altre espressioni della realtà, ha una sintassi che si può analizzare, così come si possono analizzare i singoli elementi di una frase o le cellule di un organismo, ma questo, rispetto a loro ci dice solo una verità parziale e qualche volta ci allontana da una comprensione che non può essere separata dalla sua integrità.
Se ancora potesse servire un esempio, basti pensare a una frase, a una qualunque frase: il governo francese sostiene gli insorti libici – così si leggeva tra i titoli di un quotidiano nel 2001. Potremmo scinderla nelle singole parole che la compongono per analizzarle, ciascuna separatamente, e capire che: “governo” deriva dal latino gubernare e questo dal greco kybernon, che significa “dirigere una nave”; “francese” invece deriva dall’antico tedesco franko, “uomo libero”; “sostiene” è voce di sostenere che deriva da sub-tenere e sub è particella analoga al sanscrito upa, dal quale deriva anche il greco uper … e di questo passo cosa racconta quel titolo è completamente dimenticato e il suo senso smarrito. A volte ci si comporta così. È vero che di ogni parola si più ricostruire l’origine e che nell’origine della parola vive il suo significato più profondo, il nucleo, quasi la sostanza noumenica. Ed è vero che l’etimologia ci accompagna e ci conduce lontano nel tempo, a volte indietro anche di millenni, a volte fino al suono onomatopeico e con esso al principio dell’umanità. Ma quando una parola vive all’interno di una frase o di un discorso, il suo significato individuale deve retrocedere di fronte al significato della frase o del discorso del quale, in quel contesto attuale, la parola è gregaria.
Qui è la differenza tra una lettura in chiave ontologica della vita e del tempo e la loro lettura in chiave semiologica, tra la comprensione unitaria di cosa è vivo e reale e la sua riduzione a una forma astratta e razionale, tra la comprensione dell’organismo, evidente allo sguardo di chiunque, e la sua dissezione mediata dal bisturi e dal microscopio, a beneficio di scienziati ed eruditi. La benedizione impartita con l’acqua santa per proteggere il riposo del bambino e accompagnarlo durante la notte, può essere letta come abitudine, atto culturale, comunicazione fra “soggetti”, caso-studio, perché no? superstizione, e normalmente è letta così; può essere scomposta, analizzata, storicizzata, comparata, decostruita, interpretata, disvelata nei suoi aspetti esoterici; ma c’è un altro modo di guardare quel gesto, un modo più umano, più rispettoso, etimologicamente più “intelligente”, ed è quello che permette di vedere una madre, che è infinite madri, un bambino, che è infiniti bambini, il lascito di un intera umanità, e in quel gesto la comprensenza dei due mondi.


Bibliografia

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Revisione della comunicazione presentata, con lo stesso titolo, al seminario “Le acque: mito, scienza e tradizione” (Crodo, Foro Boario, 15-17 settembre 2011).
[1]      Florenskij, 1909 / 2010: 13.
[2]      A volte il segno di croce fatto con l’acqua benedetta si accompagnava a una breve filastrocca, come questa che segue e di essa esistono molte varianti: Acqua santa che mi bagna / Gesù Cristo mi accompagna / mi accompagna notte e dì / brutta bestia [il diavolo] via da qui!
[3]    Sulle segnature in rapporto alla medicina empirica: Angelini, 2011.
[4]   Rituale Romanum, parte III, cap. XLVII, artt. 1421-1433; la traduzione qui utilizzata del Benedizionale, approvata dalla Conferenza Episcopale Italiana, è consultabile sul sito http://www.liturgia.it
[5]    Nello stesso testo, art. 1430.
[6]    Sulla revisione del Rituale Romanum: Lameri, 2008.
[7]    L’editio princeps del 1614 è pubblicata in Monumenta liturgica Concilii Tridentini, vol. 5, cur. Manlio Sodi e Altri, Libreria Editrice Vaticana, 2004; per le citazioni userò l’edizione Rituale Romanum Pauli V Pont. Max. jussu editum, Officina Plantiniana, Anversa 1617.
[8]   «Exorcizo te creatura salis per Deum+vivum, per Deum+verum, per Deum+sanctum […], ut sanaretur sterilitatis aquæ: ut efficiaris sal exorcizatum in salutem credentium: & sis omnibus sumentibus te sanitas animæ & corporis: & effugiat atque discedat à loco, in quo aspersum fueris, omnis phantasia, & nequizia vel versutia diabolicæ fraudis, omnisque spiritus immundus adiuratus […] Exorcizo te creatura aquæ, in nomine Dei+Patris omnipotentis, & in nomine Iesu+Christi Filij eius Domini nostri,  & in virtute Spiritus+sancti: ut fias aqua exorcizata ad affugandam omnem potestatem inimici, & ipsum inimicum eradicare & explantare valeas cum angelis suis apostaticis …». Al segno + corrisponde il segno della croce.
[9]      «Commixtio salis et aquae pariter fiat. In nomine Pat+ris et Fi+lii et Spiritus+Sancti. Amen».
[10] Chiazzo, 2003: par. 4.3. Rinvio a questo saggio per ciò che riguarda il significato dell’acqua nell’iniziazione cristana.
[11]    Per un’ampia nota su atti sacramentali, devozionali e paraliturgici: Proja, 2005; Sibilio, 2011.
[12]  Per chi traduce nelle griglie della razionalità gli aspetti che riguardano la sfera spirituale, non c’è distinzione sostanziale tra magia e religione: le cui differenze si pongono pressoché solo in funzione del momento storico e del contesto al quale sono riferite. Pierre Bourdieu (1971) – sulla scia di Émile Durkheim e di Max Weber – afferma che la “magia” non è altro che una forma di religione “dominata” o regressiva, potremmo dire “perdente”, comunque riconducibile al pari della “religione”, a un sistema di pratiche e credenze. E si presenta «come magia o come stregoneria, nel senso di religione inferiore, tutte le volte che occupa una posizione dominata nella struttura dei rapporti di forza simbolica, cioè nel sistema delle relazioni tra i sistemi di pratiche e di credenze propri a una formazione sociale determinata. E’ così che si designa comunemente con magia sia una religione inferiore e antica, dunque primitiva, sia una religione inferiore e contemporanea, dunque profana (equivalente qui di volgare) e profanatrice. Così il sorgere di un’ideologia religiosa ha come effetto di relegare allo stato di magia o di stregoneria gli antichi miti e, come osserva Weber, è la soppressione di un culto, sotto l’influenza di un potere politico o ecclesiastico, a vantaggio di un’altra religione che, riducendo gli antichi dei al rango di demoni, ha dato origine, la maggior parte delle volte, all’opposizione tra la religione e la magia». La traduzione è tratta dal materiale didattico di Luigi Berzano (Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche). Il riferimento esplicito al termine della citazione rinvia a Weber, 1920. [13]    Ghiglino e altre, 1991; [14]    Vedi Angelini, 2011; [15]    Sulla definizione di atto sacramentale, cfr. il Catechismo della Chiesa Cattolica, parte II, sez. II, cap. IV, artt. 1667-1679.
[16]    Proja, 2002 / 2008: 136. «Attribuire alla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo dalle disposizioni interiori che richiedono, è cade nella superstizione».
[17]    Evans, 1906 / 1989: 70-71
[18]    Sorcinelli, 1998: 13 (mio il corsivo).
[19]    Ricordo, in particolare, Eliade, 1952 / 1981.
[20]    Vedi Rivera, 1988: 40. Bronzini, 1980: 149, parla di «sincretismo pagano-cristiano che sopravvisse nel mondo rurale e che tuttora affiora nei riti e nelle credenze delle nostre popolazioni». Sul sincretismo pagano-cristiano in chiave comparatista: Lanternari, 1967: 308.
[21]    Attori, 1990: 195, 198.
[22]    Guenon, 1946 / 2003, capp. VIII, XV, XXIII; Guenon, 1954 / 2004, cap. II.
[23]    Ginzburg, 1972. Sulla sopravvivenza di culti agrari in contrapposizione e resistenza alternativa nelle campagne ai culti della Chiesa, e sulla loro conversione di matrice inquisitoriale nel fenomeno della stregoneria: Ginzburg, 1966. 

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