Nel cerchio del tempo

Massimo Angelini

NEL CERCHIO DEL TEMPO

In realtà questi pensieri non hanno origine in me,
essi sono i pensieri di tutti gli uomini
di ogni epoca e terra,
se non sono vostri quanto miei non sono niente,
o quasi niente
Walt Whitman [1]

1.
Come il seme nel frutto, come la linfa nel ramo, come la luce nello sguardo, così il valore delle idee e di quanto esiste vive dentro le parole che le comunicano; e nell’origine delle parole si manifesta il significato profondo di quanto esiste e di quelle idee: nell’origine delle parole vive e fermenta l’anima delle cose. [2]
“Giorno” e “dio” nell’intimo del loro significato più antico hanno quasi lo stesso valore, perché entrambe derivano da una stessa parola sanscrita – dyaus – che significa “cielo luminoso”, e da qui scendono diurnus (poi “giorno”) e deus (poi “dio”). E “cielo luminoso” per estensione diventa “luce”.
“Dio” è luce, e anche “giorno” è luce.

 Partiamo da qui, dal giorno, per parlare del tempo e raccontare una storia che abbiamo tutti davanti agli occhi: tanto le persone più istruite quanto – e forse ancora di più, perché meno ostacolate dalle troppe mediazioni – quelle che hanno un rapporto più diretto con le cose del mondo. Una storia dove il tempo si misura all’interno di due unità periodiche: la più piccola – il secondo – che ciascuno di noi può percepire, ed è il battito del cuore che, in quiete, batte una volta al secondo; e la più grande che nessuno individualmente può cogliere, ma è stata conosciuta nel tempo lento delle generazioni, ed è il grande anno segnato dalla precessione degli equinozi, quando in 25.920 anni il cielo dello zodiaco ritorna al punto di partenza.
Partiamo da una storia fatta di cerchi concentrici: per comprenderla non servono conoscenze particolari né troppe parole: bastano i nostri occhi e un po’ di gusto per l’evidenza. [3]
Gli intervalli di tempo inferiori al secondo sfuggono alla nostra esperienza. Sono tempi irriferibili. Non li possiamo conoscere senza macchine complicate; servono all’elettronica, all’astronautica, alla cibernetica, non alle tecniche di chi disponga solo delle proprie mani, dei propri sensi. L’unità umana per la misura del tempo è il battito del cuore, quella dello spazio è il passo del cammino, quella della capienza sono le mani giunte a conchiglia, sul nostro sguardo si misura il movimento del cielo, le forme della realtà e le dimensioni delle cose: cosa per essere misurato ha bisogno di una macchina non si addice alla nostra esperienza, e fuori dall’esperienza il mondo si dirada nelle astrazioni.

2.
Il giorno inizia con l’alba, quando il sole emerge dall’orizzonte, e termina con il tramonto, quando il sole scende dietro l’orizzonte. L’alba e il tramonto durano circa 3 minuti: quanto occorre perché il sole emerga o scenda completamente, quanto ci vuole perché il sole faccia un passo grande quanto il suo diametro. E nei giorni di equinozio, quando il giorno e la notte hanno uguale durata, nel cielo, da orizzonte a orizzonte il sole percorre 240 passi.

I tempi del giorno sono due. Il mattino, dall’inizio dell’alba fino al vero mezzogiorno – che non è il mezzogiorno degli orologi, ma l’attimo sospeso quando il sole meridiano arriva al culmine della sua corsa in cielo e le ombre si accorciano quanto di più non potrebbero. Il secondo tempo, quando dal vero mezzogiorno fino al termine del tramonto il sole percorre la curva discendente del suo arco, lo chiamiamo pomeriggio.
All’alba, prima che si stacchi dalla linea dell’orizzonte e al tramonto appena tocca la linea dell’orizzonte, il sole ha un sussulto e pare ripensarci; non è un’immagine fantasiosa: guardatelo, succede proprio così. E perché, non lo so dire.
C’è un momento particolare, ed è quando il sole e la luna sono uno di fronte all’altra e hanno la stessa luce e la stessa grandezza. Succede poco prima che l’uno o l’altra inizi a tramontare a Ponente e intanto, dalla parte opposta, a Levante, l’uno o l’altra è appena sorta. È un momento raro: durante l’anno succede una o poche volte. Forse è stato così anche il Venerdi di passione: lo raccontano alcune crocifissioni bizantine o più tarde – ne parlano ancora i dipinti di Nicolo l’Alunno (1461, Spello) e Raffaello Sanzio (1503, Londra) – dove il sole e la luna figurano l’uno di fronte all’altra: il sole alla destra del Crocefisso, la luna alla sua sinistra, certamente piena e appena sorta nel cielo di Levante.

I vangeli canonici non ne parlano e si limitano a ricordare che nel mezzogiorno, venuta l’ora sesta, il sole si oscura e “rosso di vergogna, nasconde il volto”; [4] poi, quando Gesù muore, si fecero tenebre su tutto il paese, fino all’ora nona[5] Ma della luna fa cenno solo l’apocrifo Vangelo di Nicodemo, nel brano dove Disma, il “ladrone buono”, riprende l’altro ladrone, Gesta, entrambi appesi ai lati di Gesù: Non hai visto, sventurato, il sole oscurarsi, e la luna su tutta la terra, dall’ora sesta fino alla nona? [6]

Nel tempo che precede e accompagna il tramonto il cielo s’infiamma e il sole va a gettarsi nell’orizzonte, rubescente come un tuorlo d’uovo. Appena il sole si è immerso dietro l’orizzonte, inizia il crepuscolo e dura fino all’ultima luce: in questo tempo, mezz’ora dopo il tramonto la campana suona l’Ave Maria e invita la gente a rincasare e a chiudere la porta di casa e a oscurare le finestre. Sulla tela di Casa d’altri, breve gioiello di narrativa – lo testimonia Eugenio Montale – così Silvio d’Arzo dipinge il rientro a casa in un villaggio della montagna piacentina. [7]

C’era quassù una cert’ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. le capre s’affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri.

Il tempo del crepuscolo non è più giorno, ma non è ancora notte. È un tempo mediano, dove due mondi s’incontrano e le ombre diventano vive come le cose che le proiettano, anche dentro di noi: è un tempo buono per la riflessione ed è anche il tempo più adatto, si dice, per entrare in contatto con i due mondi. [8] E l’ultima luce del crepuscolo è un raggio blu, quasi un lampo: pare che il profumo dei fiori in questo momento sia più intenso.
Con il tramonto, l’oro meridiano è diventato rame, presto prenderà il colore dello stagno, poi si muterà in piombo.
Dopo l’ultima luce inizia la notte e delle cose non si distingue più il colore né la forma: fino alla vera mezzanotte, che sull’orologio invernale corrisponde a pochi minuti dopo la mezzanotte e mezza, diciamo sera; poi, dalla mezzanotte vera fino al primo chiarore, notte profonda. E nella notte profonda il momento più buio è sempre quello che precede il ritorno della luce, e la luce ritorna e ritornerà sempre fino alla fine dei tempi.
La notte termina con il primo chiarore, annunciato dal primo canto del gallo, [9] quando delle cose si torna a distinguere la forma e il colore, e questo tempo che dura fino all’alba lo chiamiamo aurora e, come il crepuscolo, non è più notte ma non è ancora giorno: è un tempo mediano, quando i due mondi di nuovo si incontrano e si confondono. Racconta Pavel A. Florenskij che i sogni fatti durante l’aurora siano quelli dove il tempo si ribalta e il futuro si riavvolge sul passato e si lascia guardare, e che, per questo, siano i sogni della preveggenza. [10]Poi, dopo il tempo dell’aurora, segue l’alba, ritorna il giorno: il piombo notturno, si è stemperato nel colore dello stagno, è diventato rame, presto si muterà in oro, il colore della luce. [11]
Nei due giorni dell’equinozio (21 marzo, 23 settembre) il punto dove sorge il sole sull’orizzonte segna l’esatto Levante (perché lì il sole si leva), quello dove tramonta segna l’esatto Ponente (perché lì si pone). Tutti i giorni, la proiezione sull’orizzonte del sole giunto al culmine del suo arco segna l’esatto meridione (medium diei, la metà del giorno), chiamato anche mezzogiorno. L’esatto settentrione lo indica di notte la stella Polare, alla quale alludono le due stelle posteriori del carro che dà forma all’Orsa Maggiore. [12]
L’alba, il vero mezzogiorno, il tramonto, l’ultima luce, e il primo chiarore, sono i momenti che segnano i tempi del giorno e della notte e che possono essere riconosciuti senza orologi né altri strumenti. [13] Questi momenti non sono uguali per tutti, ma diversi di luogo in luogo; e nello stesso luogo, alba e tramonto accadono in momenti diversi per chi vive sulla costa e per chi vive in altura, per chi vede l’orizzonte sul mare e per chi lo vede delimitato dai monti lontani, tanto lontani da arrivare a prendere il colore del cielo o sfumare nella foschia.

Così, al principio, il giorno era solo il tempo di luce legato al passaggio del sole nel cielo; si alternava alla notte, e perché era legato al tempo di luce la sua lunghezza cambiava continuamente nel corso dell’anno. Come oggi, si ripartiva in ore, ma erano ore differenti da quelle che conosciamo. Oggi dividono geometricamente il giorno e la notte in 24 parti uguali, e geometricamente sono divise ciascuna per sessanta minuti primi, e ogni minuto primo in sessanta secondi, e così di seguito – non più per noi, ma per i misuratori artificiali – fino all’atomo del tempo. Ma in un’altra epoca, le ore formavano la dodicesima parte del giorno, quando il giorno segnava la corsa del sole da orizzonte a orizzonte, e perciò la loro durata non era mai la stessa: più lunghe in estate, più corte in inverno. La prima ora iniziava con l’alba: a dicembre, terminava dopo circa 45 minuti; a marzo e a settembre, dopo 60, più o meno; a giugno, dopo circa 75. Le altre 11 ore avevano la stessa durata della prima. E l’ultima ora, la dodicesima, terminava con il tramonto.
Di luogo in luogo, secondo la posizione, l’orientamento e l’altitudine dei luoghi, cambiano l’inizio e la durata del giorno e delle stagioni. E così, di persona in persona  cambiano l’inizio e la durata dei tempi della vita.

2.
Seguendo il grande gioco delle corrispondenze, nell’anello dell’anno – si chiama così da anulus – possiamo leggere lo stesso ritmo che abbiamo incontrato nella ruota del giorno e della notte – quando si avvicendano mattina, pausa meridiana, pomeriggio, crepuscolo, notte e aurora – e incontrare, corrispondenti, le stagioni.
La primavera inizia quando il bosco comincia a vestirsi di foglie; l’estate, quando il grano è maturo e pronto per la mietitura; l’autunno, quando il bosco si tinge di giallo e poi di rosso; la quarta stagione è quella del congedo, quando sugli aceri, le roveri, i castagni e i faggi non ci sono più foglie.
Ancora Silvio d’Arzo, sul passaggio dall’autunno al congedo:

Ormai aveva smesso di piovere. Le donne avevano rimesso i fornelli davanti allo scalino di casa e i pulcini attraversavan la strada: me ne entrarono perfino in parrocchia. A metà del mattino venne fuori anche un pezzo di sole. Vecchio ottone, oro falso, però: da non potersi fidar più che tanto. […]
Aprii la finestra che dà sulla piana. Strisce di pioggia e odor d’erba bagnata invasero tutta la stanza. [...] E così tutto il giorno: ma poi, alle prime ombre, cessò; e quando nelle stalle le lanterne si accesero, spuntò anche la luna. Non rotonda come in agosto, s’intende, ma più furba, e più lucida e fresca come l’avessero tolta da un secchio: e tutti i monti con le creste già bianche  ed i pascoli e il cimitero ed i boschi, e giù, dall’altro lato, la valle, mi si aprirono più grandi che mai; tutto giovane e azzurro con qua e là qualche picchio d’argento. [14]

L’inverno, al più tardi, inizia nel giorno del solstizio, poi nel gelo ogni cosa si addormenta; il risveglio, quando i ghiacci cominciano a sciogliersi e sugli alberi tornano le prime gemme.

3.

Potremmo soffermarci su altri cicli, quello della luna oppure dello zodiaco, e mostrare che l’andamento del tempo è naturalmente circolare e che a ogni aurora e a ogni risveglio segue un nuovo tempo e un patto rinnovato della natura con l’eternità. Ma io vorrei fermarmi su un ciclo meno evidente che qualche volta, e mi pare sempre più spesso, è insegnato non come un cerchio, ma come un segmento, una corda tesa sul nulla: ed è la vita di ciascuno di noi. In armonia con il mondo che ci circonda e del quale facciamo parte, anche la nostra vita può essere letta sulla filigrana di un cerchio; come quelli del giorno, dell’anno e ogni altro che ci appare evidente.

Si nasce come nasce il giorno e come a primavera nasce l’anno, si conosce un mezzogiorno e un crepuscolo, poi si muore e si scivola in un sonno profondo come sono profondi la notte e l’inverno. Soffermiamoci qui.

Prima di essere aggettivo e denotare uno stato, la parola “morto” nasce come participio passato e come tale denota il compimento di un’azione o di un processo. Di una persona si può dire che è morta, in un giorno e in un’ora precisa, come si può dire che è nata, in un giorno e in un’ora precisa, in quel momento, non per un tempo duraturo. Esiste l’atto del morire come quello del nascere, non la morte. In armonia con il mondo anche il nostro ciclo continua e la luce, in un certo momento, si separa dal corpo: lo sappiamo quando guardiamo il corpo di chi è morto: è spento, spesso è sgradevole, eppure è lo stesso corpo che abbiamo conosciuto vivo, ma manca la luce, manca la vita, è già altrove.
Canta Walt Whitman:

Che cosa credete che siano divenuti i giovani e i vecchi? E che cosa credete che siano divenuti le donne e i piccoli? Essi vivono da qualche parte e stanno bene, il più piccolo germoglio dimostra chiaramente che la morte non esiste, e che se mai esistette fu al servizio della vita, e cessò all’apparire della vita. Tutto procede e si espande, e niente si annulla, e morire è diverso da quel che si crede, persino più propizio. [15]

L’analogia della vita degli individui con l’andamento circolare dei tempi e delle stagioni potrebbe portare a un atto di fiducia verso il ritorno dell’anima individuale, ma non è questo che voglio dire, non per negarlo ma per non affermare quello che non è dato conoscere. Eppure la sopravvivenza c’è, non sappiamo dire come, ma c’è. Comunque, anche per chi ha difficoltà a pensarla, c’è a un livello minimo: nelle cose fatte e tramandate, nella forma data allo spazio, nell’eredità delle riflessioni e delle scelte che collettivamente hanno portato a fissare tutto quanto è stato vagliato e confermato, nei linguaggi che abbiamo appreso, nell’aspetto e nel comportamento di chi è venuto dopo.
Suggerisce Carlo Signorini, in un racconto ambientato tra le Dolomiti,

Quassù a Calchere il tempo scorre lentamente, scandito dai cambiamenti delle generazioni. Vanno e vengono col ricambio delle stagioni. Inesorabili ne segnano la vita: i vecchi lasciano il posto agli adulti che pian piano diventano anziani; i bambini crescono, si fanno uomini, e a loro volta danno vita a nuovi germogli. In questo alternarsi di persone prende corpo il fluire perpetuo delle stagioni, dove si incontrano visi nuovi, ma con evidenti tratti di chi se n’è già andato: lo stesso naso o gli stessi occhi, una risata particolare. Sono dettagli che ricordano chi è stato prima. [16]

Abbiamo accennato a tempi mediani, ambigui, quando cosa è naturale entra in contatto e, compresente, si unisce con cosa è invisibile; l’umano con il divino, il fenomeno con il suo archetipo. Sono terra d’incontro, terra fertile, come lo sono i tempi e le situazioni ambigue dove qualcosa non è più e qualcos’altro non è ancora eppure sono entrambi compresenti. Così nel tempo dell’aurora, che non è più notte e non è ancora giorno, si apre un varco nel cielo, una porta sull’interiorità e il contatto diventa più facile; così è anche nel tempo del crepuscolo, quando al contrario non è più giorno ma ancora non è notte: si riflette meglio; si è più in contatto con se stessi e la totalità di cosa ci circonda. Così si potrebbe dire del dormiveglia, quando si passa dal sonno alla veglia e dalla veglia al sonno. Così di alcuni momenti dell’anno – le stagioni del congedo e del risveglio – ma anche della vita: penso al tempo amniotico della gestazione o, al contrario, a quello dell’agonia: non è più vita e non è ancora cosa segue al passaggio della morte. In questi tempi i mondi s’incontrano, come s’incontrano nel delirio, nei momenti di passaggio, nella confusione di genere, nell’esperienza estatica, nell’ebbrezza che accompagna il rito o la visione (non nell’ubriachezza, stordimento e capovolgimento grottesco più vicino al sonnambulismo o alla possessione). S’incontrano nelle visioni dei matti, che in altre epoche e fra altre genti si dice siano a più stretto contatto con il divino.

4.
In armonia con la circolarità che anima il tempo, possiamo avanzare due riflessioni.

Se la metafora del cerchio funziona anche per noi come per tutto quanto esiste e possiamo vedere e riconoscere, allora non c’è dubbio che dopo la notte viene l’aurora e dopo l’inverno il risveglio e che dopo il sonno profondo c’è un tempo di rinascita. E la nostra aurora – quel tempo che non è più notte e ancora non è giorno, la stagione che non è più inverno e non è ancora primavera – forse potrebbe coincidere proprio con il tempo che dal concepimento ci accompagna fino alla nascita. Nel tempo lineare siamo un corda tesa tra la nascita e la morte. Nell’armonia del tempo circolare a un certo punto si muore ma la morte non esiste e come per ciò che non esiste forse non c’è motivo di averne paura.

Il cerchio del tempo è fatto di stagioni. Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: così apre il libro dell’Ecclesiaste e insegna che c’è un tempo per seminare e uno per raccogliere, uno per abbracciare e uno per astenersi dagli abbracci: una stagione per ogni cosa.
Il periodo di luce, dal primo chiarore dell’aurora fino all’ultima luce del crepuscolo è fatto per la veglia, quello del giorno per le occupazioni, quello della notte per la quiete e il sonno. Tolte le eccezioni, per natura o per necessità, questo è vero per le persone, gli animali, le piante e tutto ciò che vive.
Non si può volere mangiare arance e pomodori tutto l’anno. Chi si abitua a questo perde il senso delle stagioni. Fuori dal cerchio, tutto diventa uguale e senza il senso delle stagioni si veglia di notte e si dorme di giorno: è tutto uguale; chi ha 20 anni vuole insegnare la vita a chi ne ha 70 e chi ha 70 anni vuole sedurre ragazze di 20. Che confusione! Fuori dal cerchio la morte esiste e fa paura. E si rimuove e si allontana con l’inganno, fingendosi giovani come non si è più, cancellando i segni del tempo come una vergogna, curando il corpo come un feticcio per mantenerlo lucido e performante: un guscio refrattario al tempo ma anche alla nostra anima.
La visione lineare del tempo alla quale siamo addomesticati ignora la verità profonda delle stagioni e il piacere del ritorno.

È tutto qui. È solo tutto qui. Allora?

Allora: come il seme nel frutto, come la linfa nel ramo, come la luce nello sguardo, così il valore delle idee e di quanto esiste vive dentro le parole che le comunicano; e nell’origine delle parole si manifesta il significato profondo di quanto esiste e di quelle idee: nell’origine delle parole vive e fermenta l’anima delle cose.
“Vita” è la forma astratta del verbo “vivere” che discende da un’omologa parola latina e, a sua volta, questa deriva da un’antica radice sanscrita “jîv” che significa “vivere” e “rivivere”. [17] E vivere e rivivere è il destino di tutto ciò che vive. Ed è il destino che si esprime attraverso il racconto mitico dell’eterno ritorno e attraverso, ancora una volta, la metafora di un cerchio. Proprio quel cerchio che accompagna queste parole: il cerchio del tempo.


Bibliografia

Massimo Angelini
2011a: Il sole, la terra e il ritorno all’evidenza, in Dalla cultura al culto, Nova Scripta, Genova 2012.
2011b: Il sacro nella lettura dello spazio rurale”, «Conoscenza Religiosa», II (2011), 2: 15-35.

Silvio d’Arzo (Ezio Comparoni), 1952: Casa d’altri, postumo. 2008: ed. Nuages (Milano).


Pavel A. Florenskij

1914: Stolp i utverzdenie Istiny. 2010: La colonna e il fondamento della verità, tr. Pietro Modesto, cur. Natalino Valentini, ed. San Paolo (Cinisello Balsamo, Milano).
1922a: Ikonostas. 1977: Le porte regali: Saggio sull’icona, cur. Elémire Zolla, tr. Pietro Modesto, ed. Adelphi, (Milano). 2008: Iconostasi, cur. Giuseppina Giuliano, ed. Medusa (Milano).

L. Hautecourt, 1921: Le Soleil et la Lune dans les Crucifixions, «Revue Archéologique», 2.


Antonio Montanari, 2009: Fulget crucis mysterium. Il mistero della croce, svelato dalla parola dei Vangeli, in Arte – Fede – Cultura:“Sapere e stupore dall’arte al messaggio”, cur. Arcidiocesi di Milano, in www.chiesadimilano.it


Carlo Signorini, 2010: Calchère. Le stagioni della vita. Armonia e natura nelle Dolomiti, Edizioni del Baldo (Castelnuovo del Garda, Verona).


Walt Whitman, 1855: I Sing the Body Electric. 1999: Canto il corpo elettrico, in Foglie d’erba, tr. Alessandro Quattrone, ed. Demetra (Colognola ai Colli, Verona).


Revisione della comunicazione presentata, con lo stesso titolo, all’incontro  “Tarots, il girotondo nella ruota del tempo” (IV Festa dell’Inquietudine, Finalborgo, Complesso monumentale di santa Caterina, 27 maggio 2011). Sul cerchio del tempo avevo già scritto sull’almanacco Bugiardino 2012: questi, qui proposti, sono solo primi appunti che amerei continuare a coltivare.
[1]      Whitman, 1855 / 1999: 45.
[2]      Le prime battute di questo esordio sono ispirate a un testo di Elémire Zolla.
[3]      Vedi, sotto, Il sole, la terra e il ritorno all’evidenza.
[4]      Montanari, 2009.
[5]      Mc 16, 33; anche in: Mt 27, 45; Lc 24, 44.
[6]      Vangelo di Nicodemo: X, 6, in I Vangeli apocrifi: 342. Anche: Hautecourt, 1921.
[7]      D’Arzo 1952 / 2008: cap. 15. Le striscianti presenze che nello spazio rurale si animano con il crepuscolo e l’autunno sono il silenzioso sfondo del breve racconto di Silvio d’Arzo, (1952, postumo), asciutto e senza sconti alla sincerità, da Eugenio Montale considerato tra i più belli, ma anche meno noti, del secondo Novecento.
[8]      Sono i mondi del giorno e della notte, ma, in senso metafisico, anche quelli che alludono alla realtà invisibile e a quella visibile. Ne parla Pavel A. Florenskij, ne La colonna e il fondamento della verità (1914 / 2010: lettera I).
[9]      Sul canto del gallo: Angelini, 2011b.
[10]    Florenskij, 1922 / 2008: 25 e ss.
[11]    Stessa opera: 103-105.
[12]    Le sette stelle dell’Orsa Maggiore, in relazione alla figura del carro, sono come “sette buoi da tiro”, septem triones: da qui “Settentrione”. Il Carro è chiamato anche Mestolo, per la forma, o Aratro, perché le sette stelle, in un giorno e una notte, così come farebbe un aratro intorno a un perno, ruotano in senso antiorario intorno alla Polare, la stella che in questi secoli, solo in questi secoli, segna il nord. Per effetto della precessione degli equinozi, il grande anno celeste, lo segnava 24.000 anni fa e lo risegnerà tra 24.000 anni. Cinquemila anni fa il nord lo segnava Thuban, nella costellazione del Dragone; quando, tra 2000 anni, lo segnerà Alrai, nella costellazione di Cefeo, la stella del nord non sarà più indicata dai septem triones, così come, per lo stesso motivo, 5000 anni fa il nord non poteva essere chiamato “settentrione”, né essere riferito all’aggettivo “artico” (da arctos, “orsa”).
[13]    La vera mezzanotte non c’è modo di saperla senza strumenti, se non in quattro notti dell’anno: l’8 marzo quando le stelle posteriori del grande Carro sono allineate sopra la Polare; l’8 giugno quando sono allineate a ponente della Polare; l’8 settembre quando sono allineate sotto la Polare; l’8 dicembre quando sono allineate a levante della Polare: in quei giorni l’allineamento corrisponde al momento della vera mezzanotte.
[14]    D’Arzo, 1952 / 2008: cap. 9, cap. 11.
[15]    Whitman, 1855 / 1999: 33, 35.
[16]    Signorini, 2010: 6.
[17]    Dizionario Sanscrito-Italiano, cur. Saverio Sani, ed. ETS (Pisa), 2009: 584.


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