L’usura e il tramonto del medioevo

Massimo Angelini

NELL’ATTENUAZIONE DEL PECCATO DI USURA, IL TRAMONTO DEL MEDIOEVO

1.
Il saldo storiografico sul processo di legittimazione del prestito a interesse in relazione alla nascita e all’evoluzione dell’economia moderna, negli ultimi trent’anni ha raggiunto un punto di equilibrio.
La nota tesi weberiana sulla matrice calvinista del capitalismo e sul legame che ne lega la genesi all’affermazione dell’etica protestante,[1] da più parti è ormai stata ampiamente riletta alla luce dei trattati fioriti nell’ambiente degli ordini mendicanti a partire dal tardo XIII secolo. Sulla traccia delle ricerche curate da Ovidio Capitani, proseguite con Giacomo Todeschini, fino alle più recenti pubblicazioni di Oreste Bazzichi (per limitarci ai soli lavori in lingua italiana),[2] oggi esiste una sostanziale concordia sul peso avuto dalla riflessione tardomedievale di prevalenza area francescana nella messa a punto dello strumentario concettuale e giuridico che ha nutrito l’economia capitalistica fino ai nostri giorni. In particolare, è indiscussa l’influenza del pensiero di Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) – francescano provenzale, esponente della corrente rigorista dei Spirituali – che nel De emptione et venditione[3] pone la distinzione tra denaro e capitale, ovvero fra il valore nominale, statico, della moneta e quello legato alla circolazione nel mercato. Questa distinzione gli permette di affermare che l’interesse può essere lecito, e perciò non va considerato “usura”, quando ripaga la somma prestata aumentata con il valore potenziale che conteneva al momento del prestito. (Ricordiamo che ancora per tutto il tardo medioevo è considerata “usura” qualunque forma d’interesse, anche minimo, preteso sulla somma prestata.) L’affermazione di Olivi significa che il valore della somma prestata deve includere anche i mancati guadagni e quanto il prestatore avrebbe potuto realizzare con quella somma della quale, attraverso il prestito, ha perso la disponibilità.
Intorno alla metà del XIII secolo, il lavoro di affinazione delle parole associate al denaro e, più in generale, alla proprietà e alla sua detenzione era già stato avviato con la distinzione di proprietà, possesso, uso e usufrutto proposta da Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) e con le riflessioni avanzate, negli stessi anni, da Tomaso d’Aquino (1224-1274) sul prezzo, che si può definire giusto quando rispecchia la reale utilità che il bene o il servizio scambiato rappresenta per chi lo dà e chi lo riceve e quando non si discosta dalle regole del mercato. Ne segue che si può propriamente parlare di “usura” solo se l’interesse applicato è maggiore di quello correntemente accettato.
La definizione data da Tomaso sul “giusto prezzo” diventerà pietra d’angolo per ulteriori riflessioni sulla liceità del guadagno e, quindi, sulla legittimazione morale del mercato. Ma sarà soprattutto nel mondo francescano – sensibile al tema della povertà in rapporto a una società che nel tramonto del medioevo è sempre più dipendente dall’economia monetaria – che questi concetti saranno analizzati con cura e restituiti alla riflessione morale, economica, teologica e giuridica sul mercato, in generale, e, in particolare, sull’inedita distinzione tra prestito a interesse e prestito usuraio.
Le considerazioni di Pietro di Giovanni Olivi, sono approfondite dal minore fra’ Alessandro Bonini d’Alessandria – che nel De usuriis (1302) distingue usura da mutuo e tiene separato il margine di profitto ottenuto con l’usura da quello ottenuto attraverso il cambio delle valute (una cosa è la moneta usuraia altra è quella campsoria legata al cambio) – in seguito sono riprese da fra’ Astesano d’Asti nel Summa de casibus conscientiae (1317) e da Gerardo di Odone (1270-1342) nel De contractibus. A partire da questo primo periodo a cavaliere tra XIII e XIV secolo, la riflessione francescana intorno al denaro porterà lontano e, attraverso l’intensa attività predicatoria di Bernardino da Siena (1380-1444), arriverà fino alla costituzione dei monti di pietà incoraggiati da Antonino da Firenze (1389-1459) e da Bernardino da Feltre (1439-1494).
Pochi anni dopo l’apertura del primo monte istituito in Italia (Perugia, 1462), con la fondazione del Monte dei Paschi a Siena (1472) inizierà a diffondersi il sistema bancario già abbozzato alcuni decenni prima a Genova (Banco di San Giorgio, 1406). Sebbene nati nello stesso periodo, monti di pietà e banche sono istituti profondamente diversi. I primi sono la risposta alla crescente richiesta di credito avanzata da piccoli mercanti, bottegai, contadini, fino a quel momento soddisfatta a tasso usuraio da prestatori e cambiavalute ebrei; nascono dunque per assicurare l’applicazione di tassi minimi sufficienti al loro mantenimento e, di conseguenza, per mettere quei prestatori ai margini del mercato. D’altra parte è, però, indubbio che il sistema bancario abbia tratto forza dalla sopravvenuta accettazione di un giusto interesse, com’era quello applicato nei monti di pietà.
Certo la riflessione di area francescana non intendeva aprire all’usura né legittimarla, ma solo segnare la distinzione tra un interesse moderato, ancora lecito perché legato a una funzione sociale in vista del bene collettivo, e uno eccessivo finalizato al solo lucro; per trovare una vera giustificazione dell’usura si dovranno attendere i ragionamenti di Francis Bacon (Of Usury, inizi del XVII secolo) e, soprattutto, le esplicite argomentazioni dell’economista statunitense Jeremy Bentham, autore di una Defence of Usury (1787). Resta, tuttavia, il fatto che all’interno della scuola francescana si rintracciano, se non le teorie, comunque i concetti-cardine che serviranno per conciliare la fede e lo sviluppo e serviranno come fondamento per il fiorire del capitalismo.[4]
     Se ampia parte della storiografia dedicata al nuovo atteggiamento verso la pratica mutuaria ha posto l’attenzione sugli aspetti di anticipazione e preparazione dei nuovi assetti giuridici, economici e sociali legati al fiorire del mercantilismo e alla nascente etica del capitalismo, nell’emergenza di quello stesso nuovo atteggiamento la riflessione qui proposta vede l’incontro di due modi divergenti di guardare il mondo e i segni della chiusura di un’epoca.

2.
La fine di un periodo storico chiamato, dal secolo XVIII, “medioevo” e il passaggio a un tempo nuovo aperto nel segno dell’Umanesimo e del Rinascimento, sono correntemente riferiti a eventi di straordinario rilievo per la storia del mondo: eventi dopo i quali l’asse sul quale ruota la storia si è drammaticamente spostato e nulla è stato più come prima. Differenti scuole di storiografia hanno letto l’emblematico inizio del cambiamento epocale nella grande peste esplosa nel 1348, o nella caduta di Costantinopoli del 1453, oppure nell’invenzione della stampa a caratteri mobili messa in atto quattro anni più tardi, o ancora nello sbarco delle prime navi spagnole nelle Indie occidentali (1492). E se ne potrebbero enumerare molti altri ancora.[5]
     Ma lo spartiacque tra il Medioevo e la modernità può anche essere letto come passaggio fra due ethos, tra due modi profondamente diversi di pensare il mondo e pensarsi in esso. Da una parte, c’è una concezione delle cose che ha il suo fondamento in Dio e, su questo fondamento, esprime una lettura del mondo come cosmo ordinato, in sé finito, organizzato secondo forme gerarchiche; dall’altra parte, questo ordine teocentrico arretra in favore di un impianto antropologico radicalmente diverso, nel quale l’uomo è sempre più chiamato a essere modello e misura del proprio mondo: così nell’etica come nell’arte e nell’economia, così in ogni campo del sapere.
Una profonda riflessione su questo passaggio epocale è stata proposta da Pavel A. Florenskij (1882-1937) e Ivàn Illich (1927-2002),[6] i cui scritti sono fioriti rispettivamente nel primo e nell’ultimo trentennio dello scorso secolo. Entrambi sono stati scienziati, filosofi, storiografi, critici del proprio tempo e molto altro ancora; entrambi sono stati teologi e sacerdoti: pope ortodosso il primo, gesuita il secondo; entrambi hanno coltivato due distinte e tuttavia non divergenti concezioni sul movimento e la direzione dei tempi.
Se ci accostiamo alle loro concezioni con l’approssimazione di un’estrema sintesi – ché il nostro obbiettivo non è quello di riferirne ma solo di suggerire uno spunto di riflessione – vediamo che Florenskij legge, in chiave metastorica, il fluire del tempo come il moto di un pendolo che oscilla da periodi di stabilità misurati sulla ripetizione canonica che riflette l’ordine del mondo a periodi d’instabilità segnati dalla ricerca compulsiva dell’innovazione e dell’originalità. Pone i primi sotto l’etichetta del “medioevo”, i secondi sotto quella della “modernità”.
Guardando da un’altra prospettiva, Illich presenta una visione della storia che, a partire dall’Incarnazione, evento che la divide definitivamente in due parti, conduce a un epilogo apocalittico del quale il nostro tempo presenta il segno evidente. E il percorso che conduce a questo epilogo passa lungo una progressiva degenerazione del messaggio cristiano, avvenuta attraverso il tradimento, compiuto in seno alla stessa Chiesa, del messaggio di libertà che ha sciolto l’umanità da uno stato di minorità e inclinazione all’idolatria. [7]
     Secondo entrambi è possibile riconoscere le evidenze di una frattura decisiva proprio intorno al secolo XIII, quando si è capovolta la comune visione delle cose ed è radicalmente mutato un modo condiviso di leggere e interpretare la realtà.
Tra tali evidenze, Florenskij riconosce un particolare valore nel rovesciamento della prospettiva in Occidente e nel conseguente passaggio da un’arte sacra a un’arte che potremmo considerare semplicemente d’ispirazione religiosa. Nella pittura bizantina è il Santo, “scritto” nell’icona, che guarda noi; e cosa noi vediamo nell’icona, sullo sfondo di luce espresso dall’oro, non dipende dal nostro senso delle proporzioni e dalla coerenza del nostro sguardo (perché lo sguardo protagonista dell’icona è quello che sta dietro l’icona e viene dal mondo che sostiene il nostro mondo). Nella pittura rinascimentale tutto si capovolge e la pittura riflette solo il nostro modo di vedere, la nostra prospettiva, il nostro punto di vista rispetto a figure a loro volta proiettate su uno sfondo illusorio, su unico punto di fuga. Con il capovolgmento della prospettiva, l’icona, considerata una porta sull’invisibile, lascia il posto a una raffigurazione naturalistica, coerente con la percezione “moderna” che dà risalto alla qualità umana, materiale e apparente dei temi raffigurati.[8] E questo momento di passaggio è segnato, nelle loro contemporanee opere prodotte tra XIII e XIV secolo, da Pietro Cavallini (c.a 1240-1330), che ancora esprime la tradizione bizantina, e Giotto di Bondone (1267-1337), che apre la strada senza ritorno verso la prospettiva lineare. Tra l’icona di matrice bizantina, rifiorita nel XIV secolo in Russia, e la raffigurazione naturalistica c’è – insegna Florenskij – ben più di un salto stilistico: c’è un salto di civiltà e l’inizio del processo di modernizzazione che accompagna l’avvio del Rinascimento; il sovvertimento di un’intera concezione del mondo, con il principio di realtà ridotto a quello di razionalità; il passaggio da un modo unitario e simbolico di intendere la vita e pensarsi nella vita a un modo progressivamente frammentato fino all’atomizzazione, da un’attenzione per il cosmo inteso nella sua interezza al culto specialistico del dettaglio, da una concezione del mondo concreta e complessa a una astratta e improntata al riduzionismo.
Dei capovolgimenti aperti durante questo periodo, a sua volta, Ivàn Illich intravede le prime tracce nel Dictatus Papae (1075), quando la Chiesa dichiara la propria supremazia temporale, e pone particolare attenzione verso i pronunciamenti del IV Concilio Lateranense (1215), quando s’impone l’obbligo della confessione personale almeno annuale e si ridefinisce il matrimonio come sacramento. Questi sono alcuni tra i segni di quello che lui definisce “pervertimento” del Cristianesimo, un pervertimento agìto dall’interno della stessa Chiesa ed espresso nella sua secolarizzazione e nella sua progressiva trasformazione in un’istituzione fondata non tanto più su una carità superiore alla norma, ma, al contrario, sulla normazione, sull’istituzionalizzazione della carità. Nel lungo secolo di questo passaggio, il primato della fede arretra di fronte a quello della morale e il mistero lascia il posto alla dimostrazione per sillogismi.
Ma il capovolgimento che accompagna il consolidarsi di una concezione antropocentrica potremmo leggerlo agli inizi dello stesso secolo XIII anche attraverso il passaggio dalla via lucis alla via crucis, dall’enfasi sulla Resurrezione a quella sulla Passione. Cambia la stessa raffigurazione del Cristo, prima regale e trionfante sulla morte, con gli occhi aperti e la testa rivolta verso il cielo, che si trasforma nell’immagine di un uomo torturato e inchiodato alla croce, gli occhi chiusi e la testa reclinata sul petto, il corpo prima incurvato nel dolore poi, dalla fine di quel secolo, con Giotto reso nel naturalismo del corpo appeso e delle gambe piegate.[9]
     In quel periodo inizia anche a venire meno la percezione della contingenza,[10] ovvero l’idea che tutto dipenda solo dalla volontà di Dio. Osserva ancora Illich che nel tredicesimo secolo, specialmente nella teologia francescana, l’essere del mondo viene a dipendere non solo dall’azione divina, ma anche dalla partecipazione nella grazia al Suo essere, alla Sua vita.[11]
     La discontinua fatalità di ogni evento che accade per disegno o volontà divina cede il passo a una sequenzialità ordinata per causa ed effetto che poco a poco conduce a spiegare ogni evento su base naturale. Anche così l’uomo guadagna un’autonomia che si affianca a quella divina con la quale viene in aiuto e più tardi entra, di fatto, in competizione. Il passo successivo consisterà nella piena affermazione dell’autonomia umana e nella contestuale marginalizzazione della volontà divina da affermare solo come richiamo dovuto (ma sempre meno creduto). Nei decenni che accompagnano la rivoluzione scientifica e l’affermazione del meccanicismo, la contingenza si estingue e con essa si estingue l’idea di “natura vivente”; il cosmo moderno diventa inerte, tutt’al più si muove sulla scia dell’impulso fornito al momento della Creazione. Caroline Merchant, in proposito, arriverà a parlare di morte della natura, aggiungendo che si è trattato dell’evento in assoluto più carico di conseguenze nella trasformazione della visione umana dell’universo.[12]
     La rimozione della volontà divina dal mondo conduce all’idea di un cosmo inerte dove le persone diventano funzioni, “vite”, non più soggetti di un’individuazione ma oggetti di un’astrazione. Nel corso del Seicento, il cosmo bene ordinato di Dante e Tommaso – ormai deflagrato dopo Nicolò Cusano, Giordano Bruno e Galileo Galilei in un universo senza centro[13] – sarà affidato alla geometria delle “leggi di natura” e ai meccanismi che, sulla metafora dell’orologio, ne regolano l’espressione. Sullo scadere del Settecento, Dio – affermerà Laplace – sarà un’ipotesi non più necessaria, e non passeranno altri cento anni che Nietzsche ne dichiarerà l’avvenuta morte.
Torniamo al secolo XIII, lo stesso nel quale troviamo Le nozze di Francesco e madama Povertà (1217, l’anno successivo alla morte di Francesco d’Assisi), dove il denaro è rigorosamente tenuto fuori dall’orizzonte morale del francescanesimo, insieme con le prime riflessioni sull’uso del denaro avanzate da Bonaventura. Ed è proprio intorno alla metà di questo secolo e nei primi decenni di quello successivo che, compresenti, convivono la condanna del prestito a interesse (ancora inteso come “usura”) dichiarata dal cardinale ostiense Enrico da Susa nella sua Summa (1250-1261) e le prime indirette aperture assunte da Pietro di Giovanni Olivi, la rigorosa posizione affermata nell’Inferno dantesco e nel concilio di Vienne (1311) e primi ragionamenti fioriti nella trattatistica francescana e vòlti a distinguere un interesse accettabile e persino meritorio, come quello applicato al prestito e al pegno dei beni, dall’usura propriamente detta.
Nel segno di un passaggio epocale, ciò che in nessun modo poteva prima essere tollerato – la percezione di un interesse – ed era lasciato oltre i margini dell’etica cristiana, diventa in certa misura accettabile; più avanti sarà pienamente giustificato.
Quello che pare accada in misura nuova e rilevante nel secolo di Francesco è una nuova attenzione per l’uomo, inteso nella sua individualità, nella sua singolarità. Illich osserva che ci sono idee che non hanno un equivalente fino ad alcuni secoli fa benché oggi siano vissute come certezze incontrovertibili, una di queste è ciò che chiamiamo l’Io.[14] In questo periodo la salvezza si definisce chiaramente come un progetto singolare; nello stesso tempo prende corpo l’idea moderna di matrimonio, non più strumento di alleanza fra le famiglie, deciso dai suoi maggiorenti, ma contratto legale tra individui che si scambiano diritti esclusivi sopra i reciproci corpi; nasce nella dogmatica e nella coscienza comune il purgatorio che pare quasi coniato apposta per permettere proprio all’usuraio un percorso di riabilitazione, almeno così annota J. Le Goff: la speranza di sfuggire all’inferno grazie al purgatorio permette all’usuraio di fare avanzare l’economia e la società del XIII secolo verso il capitalismo.[15]
     Il tempo che appartiene a Dio – e per questa ragione, secondo un’argomentazione comune nel tardo medioevo, gli usurai che attraverso il meccanismo dell’interesse lucrano sul tempo che non possiedono saranno considerati ladri della peggiore specie – negli anni del Rinascimento diventa una risorsa economica nelle mani dell’uomo; nei Libri di famiglia (1437) di Leon B. Alberti, s’intravede la prima traccia di un’equazione destinata a diventare espressione proverbiale e, in quanto tale, di ovvietà indiscutibile: il tempo è denaro.[16] Dal secolo di Francesco, l’uomo diventa co-artefice della Creazione e infine si pone al suo centro – è del primo XVI secolo l’uomo vitruviano disegnato da Leonardo da Vinci, riverberato quattro secoli e mezzo più tardi dal modulor di Le Courbusier – diventando misura e fine di tutte le cose.
Gli esempi che scorrono sul nastro di queste osservazioni si potrebbero salutare come elementi di novità che hanno preceduto e accompagnato l’espansione del mercantilismo, il primato del razionalismo, il sopravvento della rivoluzione scientifica, ma a noi interessa leggerli invertendo l’orientamento dello sguardo storico, in chiave retrospettiva, come segni di rottura dell’unità simbolica che teneva collegati la terra e il cielo, gli uomini e Dio. Una rottura evidente nello scisma ontologico che ha diviso la realtà e separato il mondo della materia da quello dello spirito, prima interdipendenti, poi nella modernità indifferenti l’uno all’altro o, secondo i tempi, in reciproca negazione; ha ridotto il corpo a carne e l’anima a una sua funzione; ha separato verità, bellezza e bontà, colori nell’arcobaleno della stessa luce, fino a rendere moralmente indifferente che possa esistere l’una senza le altre due.[17]
     Nel corso della rottura metafisica che avviene alle soglie del medioevo, nel venire meno di quella che Florenskij chiama la concezione simbolica del mondo, non si legge solo la frammentazione e lo scisma ontologico, ma una vera e propria traslazione degli assi del culto e, conseguentemente, della cultura: quando l’asse del culto si appiattisce sul piano orizzontale, il piano della società, la cultura lo segue e cessa di occuparsi di quel Cielo che il culto non raggiunge più.[18] La filosofia si separa dalla teologia e si riduce a un esercizio della ragione che si sviluppa entro i limiti del proprio linguaggio e dichiara reale solo ciò che nei limiti del proprio linguaggio sa dire e definire.

3.
In Occidente, tra i processi più rilevanti di scardinamento dell’ordine etico, e prim’ancora metafisico, che annunciano l’uscita dal medioevo e l’inizio di un nuovo tempo, insieme con il progressivo abbandono nello spazio artistico (e religioso) della prospettiva rovesciata, con il passaggio dal primato della Pasqua a quello della Passione, con la deflagrazione del cosmo verso un universo indefinito, con il progressivo smantellamento del diritto consuetudinario e, in parallelo, delle terre demaniali e degli usi fissati a tutela di beni e diritti comunitari, possiamo provare a considerare anche le prime testimonianze di tolleranza o, addirittura, di legittimazione dottrinale del prestito a interesse, maturate attraverso la distillazione della tradizione patristica e canonica. L’accettazione dell’interesse sul prestito che apre la strada ai monti di pietà conduce, in progresso di tempo, alla legittimazione della base finanziaria che regge l’odierna economia internazionale, della quale sono assi portanti due strumenti – il sistema creditizio e la borsa dei titoli e delle valute – che nel medioevo cristiano sarebbero stati letti rispettivamente proprio sotto le specie dell’usura e del gioco d’azzardo.
Oggi l’usura, intesa secondo l’accezione comune nel medioevo, è parte rilevante della nostra vita economica e a essa è connaturata fino a non essere più nemmeno percepita in ordine all’orizzonte morale come un punto di frizione né come oggetto di riflessione e dubbio. Così intesa, non agisce solo attraverso il sistema creditizio che, a differenza di come facevano gli usurai, la esercita non con i propri soldi ma con quelli che gli sono affidati, ma agisce anche attraverso il meccanismo dell’inflazione che erode gradualmente il potere di acquisto delle valute, considerato come uno scontato, fatale, inevitabile corollario della finanza pubblica contemporanea. Tale meccanismo non è che l’applicazione del principio usuraio all’intera economia, attraverso l’anticipazione di un tasso d’interesse indiretto a favore di chi, a qualunque livello – dalla finanza internazionale al commercio minuto – gestisce o intermedia la circolazione del denaro. Così potremmo osservare anche per il salario posticipato rispetto all’erogazione del lavoro, o per la trattenuta del denaro all’interno delle transazioni di accredito, come succede per gli assegni, pagati con ritardo rispetto alla loro emissione. Non solo l’inflazione rende invisibile l’applicazione di un tasso d’interesse sul prestito, ma lo legittima proprio in relazione al potere di acquisto perduto.
Tutto questo è così abituale da sfuggire a ogni dubbio morale; l’economia sottesa in filigrana alle nostre vite e alle nostre relazioni è profondamente intrisa di usura e gioco d’azzardo (dalla borsa delle valute fino, ai livelli popolari, alla diffusione pandemica delle lotterie e delle scommesse) senza che questo susciti alcuna remora, così da rendere, anche sotto quest’aspetto, evidente la distanza tra una concezione per la quale la vita quotidiana si conforma a un ordine etico e una concezione, quella oggi dominante, per la quale è la morale che segue i costumi e si adatta e si conforma ai loro mutamenti.
È in questo senso, in ordine al capovolgimento della morale e allo smarrimento della sua radice ontologica, che anche nell’attenuazione del peccato di usura si può osservare un segno eloquente del tramonto del medioevo, ovvero della concezione simbolica del mondo.

RIASSUNTO

Il passaggio tra i secoli XIII e XIV segna per molti aspetti la fine di un’epoca, non tanto per gli eventi che l’hanno segnato, quanto perché in quegli anni si osservano segni di un capovolgimento nel modo comune di intendere le cose, vedere il mondo e vedersi al suo interno. In Occidente, insieme con il progressivo abbandono della prospettiva rovesciata nell’arte, con l’inizio dello smantellamento del diritto consuetudinario e, in parallelo, delle terre demaniali e degli usi fissati a tutela di beni e diritti comunitari, tra i processi più rilevanti che annunciano l’uscita dal medioevo e l’inizio di un nuovo tempo, possiamo leggere anche le prime testimonianze di tolleranza o, addirittura, di legittimazione dottrinale del prestito a interesse, fino allora considerato peccato di usura. Usando le categorie interpretative proposte da P.A. Florenskij e I. Illich, questo contributo, attraverso la lettura di testimonianze coeve a quel passaggio, oltre gli aspetti rilevanti e già acquisiti per la storia giuridica ed economica, colloca l’attenuazione del peccato di usura in relazione allo scardinamento dell’ordine etico, e prim’ancora metafisico, sul quale si regge il cosmo medievale, al pari del cambiamento di prospettiva nell’arte o, più tardi, dell’ipotesi copernicana in astronomia.


Revisione della comunicazione presentata al convegno “Usura / Usury, the forgotten sin”, Wrocław, 12-13 aprile 2012.
[1]      M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1904.
[2]      Per un’aggiornata e ricca bibliografia sul tema, suddivisa per risorse archivistiche e bibliotecarie, fonti, studi a diffusione nazionale e internazionale, rinvio a N.L Barile, Credito, usura, prestito a interesse, Reti Medievali Rivista, IX, 1, 2010.
[3]      G. Todeschini, Un trattato di economia politica francescana: il “De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, Roma 1980: 51-112.
[4]      D. Antiseri, Attualità del pensiero francescano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008.
[5]      G. Falco, La polemica sul medioevo (1933), Guida, Napoli 1977.
[6]      Le riflessioni sulla chiusura del medioevo e sullo spartiacque della modernità percorrono ampia parte degli scritti di P.A. Florenskij e I. Illich; in particolare, vedi gli appunti raccolti in P.A. Florenskij, La concezione cristiana del mondo (Kul’turno-istoroceskoe mesto i predposylki christianskogo miroponimanija, 1921), a cura di A. Maccioni, Pendragon, Bologna 2011, e l’intervista riportata in I. Illich, Pervertimento del cristianesimo (The Corruption of Christianity, 2000), a cura di F. Milana, Quodlibet, Macerata 2008.
[7]      Per il pensiero di Florenskij, sulla modernità: F. Haney, Pavel Florenskij – Tradition and Modernity, Studies in East European Thought, 4, 2004; I. Bocken, Sophia or Modernity? The Reverse Perspective in Pavel Forenskij as a Critique of Modern Naturalism, Transcultural Studies, 4, 2008.
[8]      Vedi P.A. Florenskij, Iconostasi (Ikonostas, 1922), a cura di G. Giuliano, Medusa, Milano 2008.
[9]      I. Illich, Pervertimento, cit.: 50. Su questo punto anche, D. Cayley, The Rivers North of the Future: The Testament of Ivan Illich, House of Anansi, 2005.
[10]    Sulla “contingenza”, I. Illich,: Dodici anni dopo nemesi medica, in Nello specchio del passato (In the Mirror of the Past: Lectures and Addresses 1978-1990, 1992), Como 1992: 209-216.
[11]    I. Illich, Pervertimento, cit.: 227.
[12]    C. Merchant, The Death of Nature: Women, Ecology and the Scientific Revolution, San Francisco 1980.
[13]    Vedi A. Koirè, Dal mondo chiuso all’universo infinito (From the Closed World to the Infinite Universe, 1957), a cura di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano 1970.
[14]    I. Illich, Nello specchio, cit.,1992: 211.
[15]    J. Le Goff, Tempo della chiesa, tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo (Temps de l’Eglise et temps du marchand, 1960), Einaudi, Torino 1977: 38.
[16]    Ibid., ed. 1977: 86.
[17]    Su questo punto, citando Dostoevskij, P. Evdokìmov, Teologia della bellezza: L’arte dell’icona (L’art de l’icône: Théologie de la beauté, 1972), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002: 61.
[18]    Sulla relazione tra “culto” e “cultura”, vedi M. Angelini, Dalla cultura al culto, Nova Scripta, Genova 2012: 39-46.

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