Fatevi le vostre varietà

Massimo Angelini

FATEVI LE VOSTRE VARIETÀ [1]

Quante volte mi è successo di sentire dire “Voi in Liguria siete fortunati perché avete ancora delle varietà locali, qui da noi invece ormai non è rimasto nulla”! Come se qui in Liguria le varietà locali fosserò lì, che basta allungare una mano … o chiedere al contadino più vicino …
È vero che sull’appennino la diversità agricola si è conservata meglio che altrove, certamente meglio che in pianura dove l’agricoltura è stata convertita al ritmo e alla forma dell’industria. Ma è anche vero che spesso la diversità è solo nascosta. Non è del tutto scomparsa come a volte piace dire a chi piace l’apocalisse; solo non si vede più; è uscita dallo sguardo della gente, dall’orizzonte della conoscenza. Qualche volta è lì, poco distante. Vive dietro un muretto, ai margini di un bosco, nella terra dimenticata, protetta dal segreto dell’abbandono. Ma, perché non la conosciamo, non la riconosciamo.
Va bene: ci sono anche terre piallate dal denaro, a colpi di monocolture e sole varietà commerciali, ibride, ingenue, presto saranno anche transgeniche. E in quelle terre come si fa?
Dove non ci sono varietà locali, si possono “ricostituire”?
Sì, e alzando il velo delle ideologie, consideriamo che:

1.
Tutto ciò che vive, si adatta e si trasforma nel tempo.
“Vieni sotto il mio cielo, prenderai il mio colore” dice, tradotto dal dialetto, un proverbio della mia terra. Poco o tanto ogni pianta risponde al luogo dove vive e nel tempo “prende il suo colore”. Il frumento Gentilrosso selezionato e tramandato per decenni in Toscana, messo sulla montagna dietro Genova (altra terra, altro clima, altra acqua, altro ciclo di luce, altro concime, altre cure, altra lingua, altri dialoghi, altre attese, altri pregiudizi) dopo uno, cinque o venti anni, poco o tanto, sarà diverso. A volte solo per l’aspetto, la forma e il comportamento (e se è solo questo, tornato in quel luogo della Toscana da dove è venuto tornerà com’era), a volte – oggi si chiama epigenetica – tutto ciò va a influire nel profondo, va a modificare lo stesso patrimonio genetico, e restituirà una mutazione. Poco o tanto, ma qualcosa di già diverso.

2.
Che noia la retorica delle varietà tradizionali, autoctone e pure, ché guai se si mescolano, se s’imbastardiscono! Che noia, e quanto inconsapevole leghismo, quanto cuore urbano in chi predica l’isolamento “razziale” delle varietà, l’apartheid del mais Ottofile che se s’innamora di un Dodicifile chissà che meticcio ne esce.

3.
Gli ibridi (normalmente) non sono sterili! Pochi lo sono davvero perché non danno semi; la maggior parte non lo sono affatto. O meglio: lo sono solo perché riseminati non restituiscono precisamente la pianta dalla quale derivano, ma tornano indietro e fanno uscire i genitori (di quella pianta), i nonni e tutti i parenti che a quella pianta nel tempo hanno portato.

Allora?
Allora proporrei di fare così:

  1. Seminate quello che vi piace e non curatevi se quello che seminate è tradizionale o recente, se è locale o commerciale. Se dura e si riproduce, nel tempo si adatta e cambia e se ora non è ancora “locale”, nel tempo lo diventerà; e quando lo consegnerete ai vostri figli allora propriamente si potrà dire “tradizionale”, perché la tradizione è, in senso letterale, precisamente la consegna nel tempo.
  2. Seminate gli ibridi: se si riproducono torneranno indietro con la memoria e vi racconteranno la loro storia genetica e nel tempo anche essi si adatteranno, poco o tanto, e diventeranno anche essi locali.
  3. Lasciate che le piante s’innamorino e non si viva in un mondo di cloni. Verranno mais diversi, zucche diverse, fagioli diversi tra loro. Non selezionateli, lasciate che siano la terra, il tempo e la Provvidenza a farlo che tutti e tre la sanno molto più lunga di voi e decideranno cosa non resterà e cosa resterà e, presto o tardi, diventerà nativo come potrete diventarlo voi restando sulla terra che vi ospita. Fate come si fa ai figli, che non si scelgono e vogliamo bene a quello più pigro e a quello più vivace, a quello più ingenuo e a quello più arguto, così voi non scegliete i semi, se potete metteteli tutti. Nel tempo saranno loro a scegliere voi.

Ora un suggerimento sulle patate. Le patate normalmente si riproducono attraverso i tuberi. Ma la riproduzione delle patate può essere fatta anche in un modo per noi inconsueto e poco praticato: cioè, attraverso i semi “veri”, quelli che si trovano nelle bacche che solo alcune varietà producono dopo il fiore. Sono bacche verdi simili a piccoli pomodori e non più grandi di 2 cm.
Chi ha a disposizione una varietà che ancora produce le bacche (per esempio la Desirée, rossa di pasta paglierina che si trova su tutti i mercati) può provarci.
Si aspetta che la pianta sia giunta a maturazione e inizi ad appassire (ma non sia ancora secca!). Si raccolgono le bacche che, da verdi, dovrebbero nel frattempo essere diventare gialle (senza, però, essere ancora rinsecchite), si lasciano asciugare qualche giorno, quindi si aprono e, con un colino da the sotto l’acqua corrente (o con l’aiuto di un frullatore a bassa velocità) si liberano i semi dalla mucillaggine che li avvolge e li si ripone all’ombra, fino a quando sono bene asciutti, e poi in un sacchetto.
A primavera si seminano in un semenzaio, un po’ fitte. Quando le piantine sono alte 10-15 cm si trapiantano in terra (10/15 cm sulla stessa fila; almeno 40 cm tra una fila e l’altra): produrranno tuberi piccoli come ciliegie o acini di uva; potranno anche essere diversi l’uno dall’altro perché (a differenza di quello che accade con la riproduzione attraverso i tuberi) sono frutto di incrocio, e alcuni avranno caratteri presi dalle piante progenitrici se si sono incrociate attraverso il polline, e alcuni potranno anche retrocedere nella memoria genetica fino ai progenitori selvatici.
Insomma, si potrebbe anche trovare un arcobaleno di piccoli tuberi di diverse forme e colori: ciascuno di essi sarà un nuovo individuo differente dagli altri e, riprodotto negli anni successivi per tubero (e non più per seme) potrebbe diventare una nuova varietà.
A chi ha varietà che producono bacche e desidera provare la riproduzione per seme vero, vorrei suggerire di riseminare tutti i piccoli tuberi ottenuti il primo anno, senza fare alcuna scelta di colore, forma o dimensione, e di lasciare che, nel corso del tempo, sia il vostro luogo a “decidere” quali individui continuare a tenere e quali eliminare. Facendo così, in pochi anni si otterrà una popolazione (non una varietà, altro che una varietà!) fatta di molti individui diversi, proprio come succede fra gli uomini e gli animali, sempre meglio acclimatata e adattata a quel luogo, come a nessun altro. Sarà una popolazione di patate davvero locali. Sarà la vostra popolazione.
Non ultimo: i tuberi riprodotti per seme sono perfettamente sani, perché per seme non passano le virosi né le altre malattie delle patate. E ricordate che, per ottenere tuberi da seme capaci di dare una produzione normale, con questo metodo non basta più un anno, ma ne servono due o anche tre.

Buon arcobaleno.


[1]      Pubblicato su, Sentiero Bioregionale, 2013.

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