Scambio dei semi e diritto originario

[da: Autori vari, La società dei beni comuni. Una rassegna, a cura di Paolo Cacciari, Ediesse - Carta 2010, pp. 103-109]

Parto da un’affermazione poco nota sulle varietà di frutta, ortaggi e cereali: le varietà in natura non esistono. In natura esistono le specie, i loro selvatici, le declinazioni locali delle specie (“ecotipi”) che nei diversi luoghi, in risposta al terreno e al clima di quei luoghi, hanno evoluto forme e comportamenti particolari; ma le varietà, come le conosciamo oggi (la mela Renetta, il frumento tenero Gentil Rosso, la carota di Nantes …) sono quasi sempre il risultato di un lento processo di selezione, addomesticazione e trasmissione fatto da contadini e agronomi nel tempo lungo delle generazioni, e questo risultato richiede decenni, qualche volta secoli, di lavoro anonimo, svolto nella condivisione dei saperi e delle pratiche comuni a un territorio esteso quanto quello di una regione oppure ristretto quanto quelli di una parrocchia o una famiglia. In altre parole, le varietà sono un prodotto del tempo e della cultura di un luogo e di una comunità, sono quasi un manufatto. Se si escludono quelle prodotte dai genetisti, quelle ottenute per ibridazione o per mutazione indotta, se si escludono, insomma, quelle più recenti, prodotte a partire dai decenni centrali dello scorso secolo, tutte le altre varietà, quelle tramandate (dunque “tradizionali”), non hanno un autore, un “costitutore”, non hanno qualcuno che, cioè, ne possa vantare un diritto esclusivo di proprietà e di uso.[1] La titolarità sulle varietà tradizionali può essere riconosciuta solo nei confronti della compresenza di chi in quel luogo e in quella comunità è vissuto e vive, perché, poco o tanto, solo chi c’è vissuto e ci vive è contitolare dei saperi condivisi e delle pratiche che sono servite nel tempo per selezionare e addomesticare la loro forma, il loro comportamento e il loro gusto e per fargli assumere le caratteristiche che le rendono riconoscibili e particolari. La mela Cavilla, l’uva Lumassina, il mais Ottofile e il cavolo Gaggetta non hanno un autore certo; essendo il risultato di un lungo processo di adattamento e conformazione, possono solo avere solo una moltitudine di coautori, comunque non un proprietario; e se qualcuno ne rivendicasse diritti esclusivi commetterebbe un atto abusivo e giuridicamente non riconoscibile se non per effetto di una norma bizzarra, inconsapevole o prepotente; quelle varietà sono patrimonio collettivo, non di tutti in modo indifferenziato, della nazione o dell’umanità, ma di una comunità legata a un territorio, quanto grande o piccolo non è rilevante. La conservazione ripetuta nel tempo e la consuetudine ne hanno fatto oggetto di diritto comunitario, un diritto che di fatto non esiste più, e non è privato né pubblico, perché non possono appartenere neppure allo Stato o alle sue emanazioni territoriali che amministrano il patrimonio pubblico, e sempre più spesso lo fanno come se fosse una particolare forma di proprietà privata (e quanto lo facciano nell’interesse comune, solo in forza di una delega indiretta e spesso distratta, si può discutere). E tutto quello che è stato oggetto di diritto comunitario, cioè delle comunità (normalmente territoriali),[2] – si pensi agli usi civici – è soggetto a una progressiva erosione e, come scoria del passato, pare destinato, prima, all’esclusione dalla percezione e dalla consapevolezza comune e, successivamente, alla totale scomparsa.[3]

Questo punto merita una particolare attenzione: a dispetto di ogni strabismo giuridico, gli ambiti comunitari tuttora esistono – hanno a che fare con le risorse necessarie per la sussistenza degli appartenenti a una comunità e hanno a che fare con il patrimonio simbolico costruito nel tempo da quella comunità, fatto di spazi, feste, riti, forme ed espressioni della cultura condivisa e vernacolare – ma non si percepiscono più come tali: sono solo usciti dall’orizzonte della percezione e del linguaggio comuni e questa uscita è la premessa per la loro definitiva scomparsa nella disattenzione e nel silenzio.

Piccoli esempi presi qua e là nel deposito della memoria. La strada è ed è sempre stata spazio di incontro e, nell’immediatezza delle case, quasi estensione dello spazio abitato. Pare normale – e anche nelle città lo è stato fino a non molti decenni fa – che le persone possano mettere la sedia fuori casa per conversare o fare nulla. Ma non posso dimenticare il vigile che a Genova, una trentina di anni fa, in una strada pedonale del centro storico, si era avvicinato a una donna seduta fuori casa vicina al suo uscio per domandarle se, per la sedia, avesse pagato la tassa di occupazione del suolo pubblico. In quel momento ho iniziato a capire che lo spazio pubblico e quello comunitario non sono la stessa cosa. Ancora: organizziamo una festa e suoniamo e balliamo con la musica che abbiamo inventato o con la musica popolare, quella ereditata per tradizione, quella di autori del tutti ignoti o, per dire meglio, di autore collettivo – proprio come le varietà agricole –, ma dobbiamo pagare una gabella allo Stato attraverso la sua agenzia, SIAE, che impone una tassa sulle feste accompagnate dalla musica con la ragione dei diritti d’autore: e non conta nulla che la musica sia inventata sul momento o che gli autori non ci siano e, intesi singolarmente, non ci siano mai stati e neppure che nessun diritto d’autore sarà pagato a nessuno. E, andando così a spaglio, cosa potremmo dire della legge per incentivare gli “agricoltori custodi”, pubblicata dalla Regione Toscana pochi anni fa, che prevede un contributo in denaro per chi mantiene e moltiplica varietà tradizionali a condizione che i semi siano consegnati alla banca dei semi indicata dalla stessa Regione senza possibilità di redistribuirli tra gli stessi coltivatori se non sotto vincolo di riconsegna.
Si riesce a riconoscere in questi pochi esempi, così eterogenei, la distanza tra cosa è “pubblico” e cosa è “comune”?

Torniamo alle varietà tradizionali che, abbiamo osservato, sono oggetto di una titolarità comunitaria e come tali non dovrebbero essere brevettabili, appropriabili da nessuno, neppure dallo Stato e dalle sue emanazioni. E i semi e i materiali da propagazione di quelle varietà si possono fare circolare liberamente? Pare banale rispondere “sì”, eppure, grazie a una direttiva europea (98/95) e alle sue interpretazioni più restrittive, dal 2000 è stato necessario iniziare a fare un’azione di pressione – che dura ancora oggi – nei confronti del Ministero delle Politiche Agricole, per sostenere che, malgrado qualunque direttiva o legge conseguente, deve essere riconosciuta (non concessa! riconosciuta) ai coltivatori la libertà di scambio delle sementi delle varietà da loro riprodotte, tanto più se si tratta di varietà tradizionali, tanto più se la produzione di quelle sementi avviene entro l’areale di tradizionale diffusione e coltivazione di quelle varietà.[4]
La ragione portata avanti vive all’interno di una duplice argomentazione: 1. le varietà tradizionali sono prodotto delle comunità locali e oggetto della loro titolarità collettiva che, al pari di un uso civico, non può essere alienata, abrogata, appropriata né limitata; 2. lo scambio delle sementi è una pratica consuetudinaria che nella cultura e nell’economia rurale si svolge in modo corrente secondo un costume consolidato e risale a un tempo che precede la memoria collettiva (in parole più chiare si direbbe: è cosi “da sempre”).

A questi due punti potremmo aggiungerne un terzo.
Tutto ciò che ha a che fare con le pratiche di sussistenza è parte di un ambito pregiuridico che logicamente precede e fonda ogni legge – perché una legge che neghi i diritti legati alla sussistenza è, o dovrebbe essere, impensabile e in sé contraddittoria -, e lo scambio delle sementi è senza dubbio un elemento che rinvia all’autoproduzione del cibo e, dunque, alla sussistenza; e alle sementi e alla confezione del proprio cibo potremmo aggiungere ciò che riguarda la generazione dei figli, la possibilità di curarsi se e come si desidera, il riparo dal freddo e dal maltempo, e ancora altro.
Lo stesso valore pregiuridico è quello che dovrebbe essere riconosciuto – perché la sussistenza comunitaria e di qualunque formazione sociale è presupposto logico di ogni norma che ne regoli il funzionamento – a ciò che riguarda le risorse delle comunità e il loro patrimonio simbolico, che normalmente sono autoregolati e fissati per tradizione orale, prima che scritta, attraverso la consuetudine e il costume. E in questo ambito vivono le comunanze (commons) e vive l’accesso alle risorse rinnovabili e il loro uso collettivo, ripetibile e non erosivo.
Tutti questi non sono diritti, né vecchi né nuovi, perché non sono corrispettivi per ciò che è dovuto[5]; vengono prima dei diritti: sono uno spazio originario, sono premesse del diritto e come tali devono essere riconosciute inviolabili e non assoggettabili ad altre limitazioni o riserve oltre alla necessità che la loro espressione non possa danneggiare, prevaricare o limitare le altrettanto sacrosante facoltà elementari di altri di agire per assicurare la sussistenza per sé, la propria famiglia, la propria comunità.
La sussistenza, nulla di più.

Se esiste un ambito pregiuridico, riguardante la sussistenza e le comunanze, che logicamente precede la formazione del diritto, esiste anche un ambito ultragiuridico che ontologicamente supera lo spazio del diritto, e questo è l’ambito del sacro e di ciò che si riconosce tale, come la vita.
Di fronte a questi ambiti originari, la legge deve fare un passo indietro e dichiarare la propria non competenza se non per garantirne la libera espressione laddove questa non danneggi, prevarichi o limiti altri, e se non per difenderne la inviolabilità, anche da intrusioni normative arbitrarie (com’è inevitabile che siano, abbiamo visto, da un punto di vista logico e ontologico).

Torniamo alla perdita di percezione delle comunanze che nel tempo porta al loro disconoscimento e alla loro scomparsa tra l’inconsapevolezza e l’indifferenza. Oggi, dei semi si occupano i frigoriferi delle banche del germoplasma; delle feste gli assessorati alla cultura o le istituzioni preposte all’animazione del “tempo libero”; della salute le istituzioni sanitarie; del sapere condiviso e comune la scuola e la televisione; della bontà del cibo le ASL; della vita in generale, gli esperti di ogni genere: l’istituzionalizzazione delle comunanze corrisponde al passaggio dalle forme comunitarie di partecipazione diretta ai meccanismi elettorali della democrazia delegata. Si confonde il comune con il pubblico, la partecipazione con la delega: il trucco è lo stesso, e il risultato è che nel tempo le comunanze diventano invisibili, fino a quando si può dubitare che siano mai esistite, e “partecipazione” diventa parola vuota, ornamento e alibi per addolcire forme di controllo del consenso.

Prima che le comunanze scompaiano del tutto è necessario riaffermarle e riaprire la morsa tra lo spazio normativo pubblico e privato perché i beni comuni siano riconosciuti tali e siano resi indipendenti dalle ingerenze e intromissione statuali. E d’altra parte è necessario segnare, sul confine del sacro e dell’ambito di sussistenza, l’orizzonte invalicabile del diritto perché anche oltre questo confine valga un principio di astensione, di non competenza a legiferare.

Nella pratica delle scelte, per riaprire la morsa tra pubblico e privato, si potrebbe cominciare da pochi primi interventi e affermare in generale, che:

L’acqua, l’aria, la terra e le sementi, i luoghi considerati sacri da chi li abita e li vive per il culto e la preghiera, gli spazi comunitari, i saperi condivisi, la lingua madre, gli usi tramandati, le scelte partecipate, le soluzioni in armonia con il senso comune, le consuetudini e le pratiche locali sono patrimonio comune, ne è titolare chi è vissuto, vive e vivrà nell’ambito comunitario che li riguarda; l’accesso che se ne ha non può ledere la facoltà di accesso di nessun altro che ne sia titolare; tutto quanto è patrimonio comune, non si può cancellare, vietare, limitare, dividere, manipolare contronatura, vendere, modificare, usucapire, appropriare, violare, brevettare, rinunciare, delocalizzare, privatizzare, istituzionalizzare. E tutto questo non può riguardare neppure cosa vive alle radici della vita, nell’ambito del sacro: così anche le persone e, più in generale, gli esseri viventi e i loro geni;

oppure, per offrire alcuni esempi particolari tra i molti possibili, che:

1.    Chi coltiva un appezzamento di terra, qualunque sia la sua dimensione, per l’autoconsumo familiare e per la vendita diretta e senza intermediari, può liberamente: trasformare e confezionare i propri prodotti nell’abitazione o nei suoi annessi, attraverso le attrezzature e gli utensili usati nella consueta gestione domestica; e vendere i propri prodotti agricoli (comprese le sementi autoriprodotte), alimentari e di artigianato manuale ai consumatori finali, senza che ciò sia considerato atto di commercio.

2.    Le feste di paese e quelle comunitarie, la musica tradizionale e i balli popolari senza autore noto, sono liberi da permessi e autorizzazioni amministrative, non sono assoggettabili alla normativa sul diritto d’autore né ai controlli o alle competenze della Siae.

3.    I diritti di uso civico sulle terre demaniali, comunitarie e frazionali non possono essere modificati, liquidati, sospesi o trasferiti e restano nella disponibilità delle comunità che hanno diritto ad accedervi. Le terre soggette a uso civico e i beni frazionali non possono essere vendute, alienate, edificate, né essere soggette a cambio di destinazione.

4.    La varietà tramandate di ortaggi, frutta e cereali sono bene comune, la loro titolarità appartiene alle comunità locali dove nel tempo sono state selezionate, addomesticate e conservate e in nessun modo sono appropriabili o brevettabili.

5.    Nulla di ciò che è vivente è brevettabile, neppure in parte.

E così di seguito per dieci, cento o altri mille punti …

Semplice, no?

Savona, 10 agosto 2010

 

Bibliografia

 

Angelini, Massimo

  2005   Varietà tradizionali, prodotti locale: parole ed esperienze, in «L’Ecologist Italiano», 2005, 3: 230-274.

Cattaruzza, Roberto

  2005   Favole Partigiane, Centro di Documentazione Pistoia Editrice, Pistoia.

Marinelli, Fabrizio

  2003   Gli usi civici, Giuffrè, Milano.

Tierney, Brian

  1997   Ed. cons.: L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, Il Mulino, Bologna 2002.



[1]  Sull’argomento: Angelini, 2005.

[2] Oggi nel linguaggio comune con questa espressione, attraverso uno straordinario capovolgimento di significato, si intende solo il diritto prodotto dalla comunità europea, la massima istituzione sovranazionale alle quale ci riferiamo.

[3] Sugli usi civici, rinvio alla bibliografia richiamata da Fabrizio Marinelli, Gli usi civici, Giuffrè, Milano 2003; sulla liquidazione (leggi “cancellazione”) degli usi civici, segnalo un libretto poco noto, scritto con straordinaria passione e competenza da Roberto Cattaruzza che il processo di liquidazione lo ha vissuto personalmente [Cattaruzza, 2005].

[4] Dall’impegno per arrivare a una legge che corregga la miopia della direttiva 98/95 è nata la Rete Semi Rurali: www.semirurali.net

[5]  Così storicamente – al di là da ogni abuso demagogico – si sono formati i diritti, come corrispettivo: il diritto di chi lavora è essere compensato; il diritto di un mafioso è essere condannato … e così di seguito. Cfr Tierney, 1997 / 2002: 31 e ss.

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