Sull’impronta emotiva delle cose

 Massimo Angelini

SULL’IMPRONTA EMOTIVA DELLE COSE  [1]

Gli oggetti, per definizione, si pensano inanimati e inerti: cose che sono solo materia, forma, colore e funzione; che non contengono emozioni, anche se le possono suscitare; che in sé non portano né gioia né dolore. Sotto questo sguardo, un martello è solo un martello, una matita è grafite e legno, e un abito è stoffa tagliata e cucita. Nessuno, credo, ha dubbi che sia così e la conoscenza materiale e quantitativa delle cose che è alla base dell’educazione scientifica che attraverso la scuola ci ha preso per mano fin da bambini ci aiuta a non averne. Chi dicesse che un martello o un abito con sé recano – non dico un’anima, ma – anche solo emozioni, potrebbe facilmente essere preso per matto o spiritoso e le sue parole per espressioni di follia, per vaneggiamento o romanticheria.
Forse è tutto vero, ma – per porgere un esempio – in un giocattolo assemblato da un bambino del sud-est asiatico, attaccato a una catena di montaggio in una situazione di sofferenza e costrizione, costruito per la distrazione e per il divertimento di un suo coetaneo europeo, di quella sofferenza, di quella costrizione non rimane proprio nulla? Neanche un’aura, un’impronta emotiva? Cosa nasce nella sofferenza davvero può dare distrazione e divertimento? Lasciate che ripeta la domanda: può questo giocattolo, costruito da bambini costretti a condizioni di lavoro per noi inaccettabili, portare felicità ai bambini coetanei delle nazioni più ricche senza recare con sé una traccia di quel dolore e di quello sfruttamento? [2]
Ancora: i diamanti estratti in condizioni di violenza nel sud dell’Africa, spesso da minori che più facilmente possono essere introdotti nelle vene delle miniere, che luce possono riflettere? Esiste una relazione tra gli oggetti senz’anima della produzione seriale e il progressivo svuotamento del nostro essere, sempre più vuoto e chiuso nell’involucro di un guscio sempre più lucido – e parlo di noi che, a nostra volta, replichiamo immagini e pose e agiamo comportamenti sempre più seriali, come le fotografie di Andy Warhol? [3] Tra il tavolo realizzato dal falegname del mio paese e quello – fingiamo uguale – prodotto da Ikea e clonato per tutto il mondo, davvero non esiste alcuna differenza sensibile? Ritengo che anche da questo punto di vista, che non ha a che fare né con la sociologia né con l’economia e neppure con una posizione umanitaria, [4] la produzione seriale di beni che sta cancellando l’artigianato e la dislocazione di questa produzione verso aree dove il lavoro è meno tutelato potrebbero incoraggiarci a ripensare il nostro rapporto con gli oggetti che incontriamo e usiamo nella vita di tutti i giorni. “Pensare” è “pesare”: sappiamo pensare quello che ci circonda?

Già Platone, nel Fedro, indicandoci lo spazio metafisico delle idee – alle quali, come un doppio, ogni cosa si conforma per tradurne in esistenza l’essenza – suggerisce che gli oggetti non sono affatto così inerti e privi di quell’intimo tratto ontologico che secoli di addestramento al materialismo hanno escluso dall’orizzonte della nostra conoscenza (e spesso, purtroppo, anche della nostra sensibilità). Ed esiste un’ampia letteratura sull’anima delle cose, sullo spirito vitale che secondo le concezioni di carattere animistico intride la materia, sugli oggetti che diventano dimora degli antenati, come si afferma a proposito del sumange in Malesia o del semangat, suo analogo indonesiano. [5]
Ma non è di questo – non del riflesso dell’archetipo nel mondo fenomenico, né della prospettiva animistica del mondo – che desidero parlarvi, ma di qualcosa di profondamente diverso: qualcosa analogo all’impronta della slitta sulla neve, al calco fossile del trilobite nell’arenaria, alle molecole «misteriose e devastanti della sofferenza» [6] lasciate nell’aria dal passaggio degli animali diretti al macello; o analogo all’ipotesi presentata da Jacques Benveniste nel 1988 e, in questi anni, da Luc Montagnier, sulla possibilità che l’acqua conservi la traccia degli elementi con i quali è venuta a contatto; [7] o, ancora, analogo con la memoria del passato della quale si incontra la traccia nei sogni collettivi. [8]
Come l’acqua secondo Benveniste e Montagnier, può, più in generale, la materia conservare un’impronta, un’impronta emotiva, del modo e delle condizioni con le quali è stata prodotta, lavorata e usata?
Il tema della carica emotiva presente nelle cose non ha conosciuto fortuna nella storia del pensiero così come è fiorita nel nostro Occidente; forse è il frutto di una sensibilità che ancora deve nascere; intanto il tema si affaccia appena tra le pagine di una filosofa australiana, Freya Mathews, che recentemente ha riflettuto sugli oggetti «che sono stati perenne strumento di tormento nelle nostre vite; per esempio: la cintura del papà appesa al chiodo dietro la porta; il recinto di filo spinato che circonda il campo; il letto di un matrimonio infelice e violento». [9] Nella prospettiva panpsichista da lei proposta in Reihabiting Reality, tutti gli oggetti, naturali o costruiti, benché dannosi o nocivi, per il solo fatto che esistono hanno un posto nella vita e portano con sé tracce di emozioni e ricordi e questo basta per non considerarli del tutto separati da noi e indifferenti per il nostro benessere.

Freya Mathews, L’approccio panpsichista e l’impegno verso le cose che incontriamo tutti i giorni
Come si traduce [l’impegno verso le cose della nostra vita] nella pratica quotidiana? Il punto di partenza per tale etica è […] essere leali con le proprie cose e gli oggetti che custodiamo. Se fra queste ci sono, per esempio, un computer o una macchina, trattateli con amicizia; non rifiutateli, ma usateli per il bene del mondo e di chi vi è vicino, per accrescerne la bellezza e la salute. Tenete il vostro computer e la vostra macchina indefinitivamente. Non cambiateli con nuovi modelli, se non è davvero necessario; teneteli bene; teneteli puliti. Se dovete separarvene, fatelo in modo da non offendere la fiducia che avete riposto in loro: lasciateli a chi sperate li tratti con lo stesso affetto. Tratta con almeno un po’ di affetto ogni cosa del vostro mondo. Se riconoscete un oggetto o una tecnologia sono particolarmente distruttiva, certo non li vorrete usare, per non recare danno al mondo intorno a voi: ma non demonizzateli, non denigrateli. Provate ad adattarli a qualche altro uso, questa volta positivo, e lasciate che si esprimano attraverso questo nuovo uso. Così, ridando vita e anima agli oggetti e rimuovendoli gradualmente dall’economia di mercato – l’espressione ultima del disincanto verso il mondo – e rinominandoli sotto la specie del dono e come parti inalienabili della vostra vita, inizierete il vostro allontanamento dal consumismo, dal suo implicito disprezzo per la materia e dalle devastanti conseguenze per impone all’ambiente, muovendovi verso un’etica della conservazione. [10]

Trattare cosa esiste, vivente o non vivente, animato o inerte, con cura, con affetto, ne porta lontana la traccia e genera riverberi che non conoscono decremento, che non si diluiscono nel tempo e non scemano con la dilatazione dello spazio. E questo può vibrare nelle corde delle nostre scelte e farci decidere se produrre e costruire con attenzione oppure con indifferenza, se circondarci di oggetti che testimoniano e comunicano la creatività e l’armonia oppure la costrizione e lo sfruttamento. Ricordiamo che già per questi riverberi, il cibo preparato da una madre non può mai fare male ai figli, indipendentemente dagli ingredienti e dai metodi di preparazione e cottura.

Se ci si riferisce alle persone, penso che non si fatichi a comprendere cosa possa essere un’impronta emotiva. È quella che lasciano nella mente e sul corpo le emozioni più vive, più forti; è quella che passa attraverso il trauma, il sogno, la fantasia quando incidono nel profondo del nostro essere; è quella che in seguito a uno spavento o a un’immagine impressionante si poteva leggere nella conformazione e nell’aspetto del neonato: si sapeva nel mondo scientifico fino al secolo XIX e ancora oggi tra la gente di popolo si sa che «le immagini penetrano nella mente e la imprimono come una matrice, guidano i pensieri e le passioni, suscitano emozioni» [11] e che le emozioni più intense o violente provate dalle madri durante la gravidanza possono portare conseguenze fatali al figlio in gestazione. Se ne inizia a parlare nella deontologia delle professioni sanitarie e nelle neuroscienze come di tracce che possono essere «lasciate nelle sinapsi dei nostri neuroni», [12] ma possiamo anche aggiungere che le stesse tracce emotive formano un cardine centrale nella costruzione della relazione psicoterapeutica. Su questo tema, lo psicoanalista Lucio Russo osserva che «nella psiche è possibile cogliere le impronte del trauma […], mai le tracce oggettive. Le impronte del trauma sono i mezzi di cui il paziente e l’analista dispongono per cercare di ricostruire il passato traumatico dimenticato». [13] L’impronta emotiva che agisce nel profondo in noi si esprime sulle soglie dove entriamo in contatto con il mondo; così il nostro viso, le nostre rughe, ma anche i nostri comportamenti possono essere letti come il diario della vita che abbiamo conosciuto: una stretta di mano racconta e rivela più di una confessione. Vista in questa prospettiva, la sofferenza parla il linguaggio della violenza che l’ha provocata; e con la sofferenza che proviamo e che infliggiamo scriviamo e testimoniamo la violenza che abbiamo conosciuto, che ci ha avvelenato e ci circonda: la paura e l’aggressività ne sono testimoni. E questo portato di violenza e di sofferenza, già così difficile da cogliere consapevolmente nelle persone (se così non fosse, amo credere che ci relazioneremmo gli uni con gli altri con ben altra attenzione e altro rispetto di come è corrente constatare), ma quanto è più difficile coglierlo negli animali, nelle piante e, mi spingo ai limiti del dicibile, negli oggetti? Ed è sempre più difficile anche perché il cuore, sempre più sordo e reso sterile, non ascolta, non sa più ascoltare, il mondo che gli parla.

Così quando si passa a parlare degli oggetti quel margine di evidenza, già labile se ci si riferisce alle persone, si assottiglia fino a venire meno. Nel vuoto di una tale evidenza resta la domanda se tra un oggetto prodotto nel rispetto di creatività, personalità, giusta retribuzione e uno dello stesso genere, ma prodotto in un clima di costrizione, anonimato, sfruttamento, esista una differenza che sia indipendente dalla sensibilità individuale e dall’informazione della quale si dispone. Possiamo porre che in una misura a noi ignota anche la materia sia in qualche modo “vivente”, non solo mutevole – e mutevole, certamente lo è perché soggetta a erosione, decremento, decadenza – ma vivente, benché inerte, incapace di movimento, e che in qualche modo riesca a conservare, quindi a testimoniare, le emozioni di chi ne è venuto a contatto, di chi l’ha prodotta?
Queste domande non sono retoriche, perché la riflessione che le sostiene non attiene alla politica sociale o all’etica delle relazioni (per le quali mi piace immaginare che la risposta  sia  condivisa senza troppe incertezze) ma all’aspetto ontologico delle cose, alla loro natura più intima, alla vibrazione che le cose trasmettono al di là del loro aspetto.
Sono consapevole che all’interno dell’orizzonte della bioetica e della domanda sulla legittimità morale della scelta di fronte alla sofferenza, questo tema si pone in una posizione di confine, e tuttavia non esito a presentarvelo, in questo momento non immaginando migliore sede dove possa incontrare un ascolto partecipe.

Per avvicinarci all’impronta emotiva di cosa è inerte, come sono gli oggetti, vorrei accennare alla stessa impronta, ma riferita ai luoghi, supponendo che la sua percezione sia più vicina all’esperienza comune e, perciò, più facilmente comunicabile.
Un luogo che ha conosciuto la sofferenza in misura eccezionale, non sopportabile con il cuore leggero senza rifugiarsi nella desensibilizzazione o nella psicosi, di quella sofferenza è pregno, come dell’acqua può essere pregna una spugna, come del fumo gli abiti di un tabagista, come della volgarità il linguaggio di chi le si concede. [14]
Suppongo che proprio per questo motivo inespresso – e non solo per l’insulto alla memoria – non si possa impunemente costruire un luna park ad Auschwitz o fare delle Fosse Ardeatine la sede di un locale notturno. Se non presumiamo l’esistenza di un’impronta emotiva nelle cose che ci induca a sentire con la materia, per impedire simili iniziative resterebbero solo l’emozione dello sdegno oppure il dato fragile della memoria. E la memoria è davvero fragile, se si pensa come oggi si considerarino al pari dei parchi d’intrattenimento o dei siti turistici i luoghi delle carneficine napoleoniche e si giochi, come bambini a carnevale, alle ricostruzioni mascherate delle battaglie, ignorando o tralasciando che proprio quei luoghi sono stati teatro di mattanze di uomini per un delirio d’impero che in Europa ha portato a un numero di vittime paragonabile a quello del genocidio armeno o a quello delle purghe staliniane. La memoria è lieve, manipolabile ed effimera, a volte non dura più del ricordo di un sogno al risveglio, a volte dura solo al prezzo di stravolgere nella caricatura quello che vorrebbe tramandare, come i ricordi della gioventù, corretti e depurati dal tempo.
Oppure resta il dato dell’emozione, dello sdegno, che, attraverso un luogo o un oggetto, fa trasparire la personale posizione su cosa è giusto e cosa non lo è. Ma finché è personale e non è universalmente condivisa come un patrimonio comune vagliato nel tempo, la posizione su cosa è giusto e cosa non lo è è effimera, come è effimera la memoria, come lo è la valutazione soggettiva di cosa è vero e di cosa è bello e di cosa è bene. Quando non sono innestate sul sentire comune e duraturo, le emozioni accompagnano il tempo, seguono le mode, hanno lo spessore di un’opinione e la solidità di un punto di vista. Nulla di più.
Esistono almeno due criteri oggettivi che, indipendentemente dal credo religioso o dalla posizione filosofica, aiutano nel riconoscimento del valore ontologico di cosa esiste e aiutano a orientare nella comprensione di cosa unitariamente è vero, è bene, è bello, senza cadere nello scisma della loro separazione e nella relatività.[15] Un criterio è nel consenso delle generazioni, quando il sentire comune delle genti permane nel tempo e supera le oscillazioni e i capricci delle mode e delle ideologie; l’altro è la luce, senza la quale non si dà la bellezza e la vita cessa di vivere.
Come il consenso delle generazioni rispetto alla verità delle cose, così la luce dà un criterio certo per valutare cosa è bello e cosa non lo è, e queste due matrici di valori non sono disgiunti da quella del bene. La verità, la bellezza, il bene: l’assenza di uno di questi aspetti esprime una luce parziale, dà spazio all’ombra, invalida gli altri aspetti, apre alla perversione della realtà, contribuisce a renderla deforme fino a farne una caricatura. Il rispetto della verità impone un’uguale attenzione al bene comune e individuale e non genera disarmonia. La verità non può fare male, non può ferire, non può abbrutire, se fa male è già “meno vera”. [16] Senza bene né bellezza non c’è verità, ma una giustizia cieca il cui unico criterio è l’ago della bilancia oppure una cinica adesione ai fatti: ogni fondamentalismo si nutre di questa perversione; così la ricerca della bellezza senza il bene e la verità si risolve nella ricerca del piacere individuale cieco ai danni che si possono provocare o al dolore generato: lo raccontano i modi di vivere basati sullo sfruttamento violento a fini di piacere, del corpo come della terra.[17] E senza bellezza e verità non c’è spazio per un vero bene, ma solo per le utopie e le pratiche totalitarie e per i loro campi di concentramento.

Il consenso delle generazioni e la luce …

E sulla luce, osservo che i luoghi e gli oggetti testimoni della sofferenza non sono luminosi: hanno spazi di ombra e zone opache e una luce ambigua o inquietante, proprio come i volti delle persone che nascondono qualcosa o sono capaci di infliggere sofferenze o di essere conniventi con chi le infligge. Conoscete case che, solo a vederle, vi mettono disagio anche se non sapete chi ci abita o cosa lì è successo? Andateci nei luoghi dove, tra il 1944 e il 1946 sono state fatte stragi di persone, dell’una o dell’altra sponda politica – penso, qui dietro Genova, alla Benedicta o a Pian Manfrei – [18]: io lì non ho sentito il canto degli uccelli, ma solo il vento e un silenzio cupo, ambiguo. Conosco chi, pur non sapendo cosa lì fosse successo, ha avuto solo voglia di allontanarsi, e da quei luoghi la gente sta volentieri lontana. Questo succede in molti luoghi, come se attraverso la sensibilità passasse una traccia fossile per qualcosa di terribile che è accaduto e che nel profondo si sa, in qualche modo, anche quando non restano più testimonianze.
Così, fidandoci della sensibilità o dei sogni, potremmo interrogarci non solo sui luoghi ma anche sugli oggetti, quelli che ci capitano nella quotidianità, così come abitualmente facciamo con le persone al primo contatto e sentiamo che in loro c’è qualcosa che non piace, che non convince, che inquieta. Ci sono donne e uomini vicino ai quali provo sincera diffidenza al di là di come si pongono, di cosa dicono, dei loro tic di affabilità, delle loro maniere di cortesia. E ho imparato che tutti noi, quando ci fidiamo di queste sensazioni profonde, sbagliamo quasi mai. Ma per questo abbiamo bisogno di sentire con le cose che ci circondano, non separati da esse; abbiamo bisogno di sentire cosa raccontano, cosa portano con sé, per non tralasciare nulla della filigrana del mondo dove tutto è collegato, tutto racconta, tutto è simbolo di cosa gli sta sotto e dietro. Un pittore esperto di arte liturgica, Marko I. Rupnik, scrive che per pensare con la materia occorre l’intelligenza che sa entrare in con i simboli. [19] Solo così si può entrare, compresenti, in relazione con il mondo inanimato del quale – annota il teologo ortodosso Nikolaj Berdjaev – per la propria “trasfigurazione” l’uomo non può fare a meno. [20]

La scala dei colori è sempre la stessa: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, viola; i fedeli del riduzionismo la leggono nell’intervallo di frequenze che dall’infrarosso porta fino all’ultravioletto; la sapienza delle genti la riconosce nell’arcobaleno. Il pensiero analitico non è competente nella complessità, non può parlarne perché ne coglie solo alcuni elementi scomposti e isolati tra loro, e dubito che l’impronta emotiva possa arrivare a essere misurata: la misura informa sulla quantità e sull’intensità, mai sulla qualità e la natura delle relazioni. Non posso escludere che un giorno i fedeli del riduzionismo possano rilevarla con strumenti o dedurla con sillogismi: quel giorno ne daranno rendiconto su Nature o su Scientific American; ma noi, sapendo che la ragione nega l’esistenza di quello che sfugge al suo orizzonte e che non può dedurre dalle sue leggi e comprendere, possiamo non attendere quel giorno. Nel frattempo io mi fido dei saperi comuni e condivisi nel consenso delle generazioni, mi fido della luce, di cosa sento e dal profondo mi dico.

Bibliografia

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Dietrich Bonhoeffer, 1942: Was heißt: Die Wahrheit sagen?19833, Che cosa significa dire la verità, app. a D.B., Etica, tr. Aldo Comba, ed. Bompiani

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[1]     Revisione della comunicazione presentata, con lo stesso titolo, al convegno “Un’etica per il mondo vivente. Ambiente e Biodiversità” (Genova, Istituto Italiano di Bioetica, 26 novembre 2011), già pubblicata in Autori vari, Un’etica per il mondo vivente. Ambiente e Biodiversità, cur. Renato Ariano e Paolo A. Rossi, ed. Nova Scripta (Genova) 2012.
[2]    Noemi Brugarino, Non è gioco, né lavoro, è solo schiavitù: «Sono l’oggetto del desiderio per milioni di bambini di tutte le età: bambole, robot e pupazzi. In tutto il mondo. Tranne che in una zona della terra: il Sudest asiatico. Qui, infatti, i bambini lavorano per costruire i giochi con cui quelli del resto del mondo trascorrono le loro ore più felici. Per i piccoli asiatici i giocattoli sono un incubo, sottoposti come sono a condizioni disumane, sottopagati e sfruttati nelle fabbriche di giocattoli in cui sono costretti a lavorare per poter sopravvivere. Dai paesi asiatici provengono i giocattoli per i bambini con le famose scritte “Made in China” o “Made in Taiwan”. Perché è qui che esiste l’altra faccia del pianeta giocattoli, quella più terrificante da raccontare, che non ha niente a che fare con un gioco. […] Un esempio di questa situazione si trova in Indonesia. Qui l’industria di giocattoli sta crescendo velocemente. Ad essere prodotti sono soprattutto pupazzi imbottiti e componenti, ma anche giocattoli di legno. In una fabbrica che produce vestiti per la Barbie, uno dei giocattoli più famosi della Mattel Corporation, si violano quotidianamente sia gli standard internazionali sul lavoro minorile, che le stesse leggi indonesiane. Già a partire dalle ore di lavoro. Secondo le leggi indonesiane, un bambino non può lavorare per più di 4 ore al giorno. Invece, i bambini che lavoravano in fabbrica sono divisi in due turni da sette ore ciascuno: dalle 8 alle 15.30, e dalle 16 alle 23; con appena 30 minuti di pausa tra un turno e l’altro. La stessa legge sul lavoro in Indonesia stabilisce anche che il datore di lavoro provveda a un programma di educazione per i bambini lavoratori. Ma anche questa regola fondamentale viene disattesa. Per i primi nove mesi di lavoro in fabbrica i bambini sono “in prova”. Questo vuol dire che durante questo periodo non ricevono alcuna paga, né altri benefici che riguardano la loro salute. A proposito di paga, questa è molto variabile e va aumentando una volta che aumenta il periodo di assunzione dei bambini lavoratori. In ogni caso è di molto inferiore a quella degli adulti e da essa si devono sottrarre i soldi necessari per l’assicurazione sul lavoro. Anche se non viene rilasciata nessuna carta assicurativa. Perciò se qualcuno si ammala o si fa male sul lavoro deve provvedere a pagarsi le spese mediche. La fabbrica non fornisce nemmeno i guanti da lavoro, e i bambini devono acquistare anche un’uniforme (una maglietta con il simbolo della fabbrica) e gli attrezzi da lavoro, come forbici e attrezzi per cucire. Ai che fa il turno di notte viene distribuito solo un uovo ed un bicchiere di latte. E alla fine del turno, dopo le 23, si torna a casa a piedi perché il datore di lavoro non fornisce un mezzo di trasporto». (http://www.ateneonline-aol.it/040123nomi.html – 23 gennaio 2004)
[3]  Riferendosi alla civiltà dello spettacolo e delle immagini, Marc Fumaroli chiama questa serialità “tautologia”, definendola «[…] il martello senza guida della cacofonia persuasiva del marketing, un meccanismo sobbalzante simile al mitragliamento a tappeto, diventato la tecnica incontrastabile di ogni strategia militare contemporanea» [Fumaroli, 2011].
[4]      I controeffetti distruttivi del modo di produzione seriale sulla convivalità sociale, sono analizzati in Illich, 1977 / 1981.
[5]      Endicott, 1970 / 1981: 47 e seguenti; Hay, 2001 / 2004: 143-144.
[6]      Tamaro, 2011: 131-132.
[7]    Sulla vicenda che ha visto coinvolti Benveniste e Montagnier, più nota con riferimento alla “memoria dell’acqua”, anche se per questo caso il richiamo alla “memoria” è improprio: Piterà, 2012.
[8]      Sui sogni collettivi: Hark, 1985 / 2002. Le posizioni di Hank fanno esplicito riferimento al deposito della memoria nell’inconscio collettivo teorizzato da Carl G. Jung; vedi: Jung, 1916 / 2002.
[9]      Mathews, 2005: 210.
[10]    Mathews, 2005 / 2012. La citazione prosegue: «Nello stesso tempo, se potete, trovatevi una residenza che sia definitiva, e quando ci riuscite, abitatela con dedizione. Se già possedete una casa, potete decidere che non la venderete mai. Siate fedeli alla vostra casa. Fatele sapere che sarà vostra per la vita, fino a che la morte non vi separi: “fa parte della famiglia”, la casa ha la propria gente e con questa intreccia il proprio destino e la propria identità. Riempitela con la vita e la bellezza. Per aumentarne l’aura e farne un luogo ospitale, incoraggiate a stabilirvisi quanti più esseri via sia possibile incoraggiare. Fate crescere alberi e piante in abbondanza, dentro e fuori. Fornite riparo e dimora per insetti, uccelli, rane e altri animali. Invece di escludere dal vostro spazio domestico la vita non-umana con barriere o armi chimiche, condividetelo generosamente con loro, adattatelo in modo che inoffensive creature selvatiche possano co-abitare con voi: scavate buchi per pipistrelli sotto le gronde, e lasciate che i ragni si godano gli angoli delle stanze. Popolate la vostra casa con animali da compagnia felici. Quando moriranno, seppelliteli in giardino, così che il suolo stesso sia intriso di ricordi. Quanti più esseri abitano la vostra casa, tanto più sarà amata, e questo amore diventerà sempre più stratificato e intenso col tempo».
[11]    Angelini, 2012: inizio.
[12]    Alfieri, 2010: 117.
[13]    Russo, 2009: 115. Anche Luchetti, 2009.
[14]    E sappiamo bene che, giocando sull’allusione, si può essere volgari, insolenti e violenti anche senza mai dire alcuna parola che sia immediatamente riconducibile al frasario  della volgarità, dell’insolenza o della violenza.
[15]    Evdokimov, 1972 / 2002: 61.
[16]    Ne parla Vito Mancuso, chiamando a testimone Dietrich Bonhoeffer e un esempio tratto dal suo Che cosa significa dire la verità? [Bonhoeffer, 1942 / 1983: 310-311]. Vedi, Mancuso, 2009: 111 e ss.
[17]    Berry, 1977 / 1981.
[18]  Alla Benedicta (sull’altopiano di Marcarolo, in comune di Bosio, AL, tra il 7 e l’11 aprile 1944, dai bersaglieri repubblichini, comandati da un ufficiale tedesco, furono uccise 147 persone, tra partigiani e uomini fuggiti in montagna per sottrarsi ai campi di concentramento. A Pian Manfrei (in comune di Urbe, SV), agli inizi di maggio del 1945, 200 soldati della divisione San Marco furono fucilati dopo la resa ai partigiani.
[19]    Rupnik, 2010: 258.
[20]   Berdjaev, 1935: 377: «La mia salvezza e la mia trasformazione sono legate non soltanto a quella degli altri uomini, ma a quella degli animali, delle piante e dei minerali, al loro inserimento nel regno di Dio, che dipende dai miei sforzi creativi»; traduzione in Špidlík, 2010: 179.

 

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