Due parole inattuali su agricoltura e manipolazioni genetiche

Massimo Angelini

 

DUE PAROLE INATTUALI SU AGRICOLTURA E MANIPOLAZIONI GENETICHE

Inedito

 

Per trent’anni ho pensato al mondo contadino come a uno dei pilastri morali della nostra civiltà, così come potrei dire dei Dieci Comandamenti. Qualche volta ne ho scritto, più spesso ne ho parlato, ma – osservo ora che mi ci soffermo – con crescente difficoltà.
Trent’anni fa sentivo difficile parlare del mondo contadino, perché era un argomento “di nicchia”, comunemente malcompreso, spesso ridotto allo spazio della nostalgia, quasi come se fosse il residuo di un passato che per fortuna o purtroppo non c’era più, il residuo di un mondo che la corrente del momento a volte tratteggiava con le tinte forti della caricatura, con i colori dell’abbrutimento o, al contrario, della favola edulcorata. Oggi sento difficile parlarne per altri motivi: non ultimi per il fatto che è diventato un argomento amabile e perché la terra si è popolata di buongustai, buoni prodotti, sempre tipici, e buone intenzioni; dove è comune e qualificante parlarne anche quando non se ne sa molto; dove piace tornare anche quando non ci si è mai stati – e sono tanti quelli che amano conversare sul ritorno alla terra – e, forse, molto di quello che si dice lo si è appreso dai libri; dove qualche volta chi sa qual è la cosa giusta da fare e ama ostentarla con benevolenza dell’agricoltura (naturalmente pulita, ecologica, equa, consapevole… ) ne ha fatto il nuovo abito del proprio perbenismo. Un abito rattoppato ad arte: in apparenza semplice e campagnolo, in realtà confezionato con gusto e senso degli accostamenti.
Il mondo contadino, al quale trent’anni fa le amministrazioni progressiste erigevano pietre tombali in forma di collezioni di poveri oggetti fuori contesto e senza più anima, ma nobilitate a museo, oggi quasi per inversione di atteggiamento è parte dell’immaginario urbano di chi della modernità possiede ogni comodità e condivide ogni nevrosi, ma sempre prendendone le distanze. C’è chi si sporca di terra le mani per qualche giorno o qualche mese, e lo fa certamente in buona coscienza, comunque certo di quello non dovrà campare. Semina verdure, le cura secondo nuove agricolture – quelle pulite, ecologiche, eque… – e poi al primo raccolto, ma anche prima, le insegna anche a chi di agricoltura ci ha vissuto e ci vive davvero.
Ma al di là delle mode e degli atteggiamenti – segno di fragilità o malattia leggera dello spirito di questo tempo – è vero che l’agricoltura, la sua trasformazione in un’industria estrattiva, usuraia, in particolare l’accesso al cibo e la sua corruzione in sostanza anche venefica per chi lo lavora, lo trasforma e lo assume, oggi sono spazio di riflessioni che non si possono rinviare sullo stile di vita di chi vive nei paesi più agiati, sulla sua alimentazione sempre meno capace di nutrire e guarire, sul ciclo compulsivo dei consumi e quello dei rifiuti, sui limiti delle risorse e del benessere, così come siamo abituati a pensare il benessere.
Io, in queste poche righe, vorrei presentare alcune considerazioni poco consueto, quasi immateriali, come una deriva.

La crisi ecologica o, detto in altro modo, la civiltà che consuma il proprio spazio e divora se stessa, viene da lontano, ha radici che affondano nella nascita della modernità e trovano la propria ragione profonda nello smarrimento del centro e della forma e, ancora prima, nell’inversione del simbolo. Provo a spiegarmi.
La concezione simbolica della realtà, è quella che della realtà tiene insieme ogni aspetto. Lo tiene unito con gli altri, come parte di un’unica creazione organica e armonica. Per sua intima natura, il simbolo tiene insieme (la parola greca symballo indica l’atto di gettare/mettere insieme, dunque “unire”), unisce, manifesta due mondi nella compresenza e, l’uno nell’altro, nella reciproca compenetrazione.
È su questa base che, per grandi categorie metastoriche, c’è chi ama ascrivere a una concezione simbolica della realtà il periodo che precede il Rinascimento (qualunque rinascimento), così come si potrebbe dire di un tempo dove tendenzialmente non si conosce separazione tra corpo e anima, tra cosa è materiale e cosa è spirituale, cosa è visibile e cosa è oltre il visibile. Il quel tempo il culto è verticale, assicura il legame tra terra e cielo, e proprio nel fare ciò, nell’unire e manifestare la compresenza, assolve la propria natura simbolica e s’innesta saldamente sulla cultura – l’asse orizzontale, interumano, della stessa croce – della quale, come rivela la natura delle due parole (culto deriva dal participio passato del verbo il cui participio futuro dà origine a cultura), è fondamento e fine[1]. In quel tempo, la realtà è più di quanto attraverso la razionalità si sia compreso o si possa giungere a comprendere: ciò che non si conosce è più di quanto sperabilmente si possa giungere a conoscere, e questo non reca alcun affanno. Nell’XI secolo la prova razionale dell’esistenza di Dio è ancora una bizzarria che ancora per centinaia di anni a Bisanzio si faticherà a comprendere.
All’opposto, in ogni campo della conoscenza e della sensibilità, la modernità, così come la conosciamo a partire dal Rinascimento, è definita dalla separazione. Nel progresso del tempo, la ragione si separa dal senso comune e dalla fede aspirando a divenire autonoma; il cosmo bene ordinato di Dante si dilata in un caos infinito; la Provvidenza lascia il campo al caso o alla sua variante pagana, la fortuna; l’uomo diventa unità di misura e poi giudice della Creazione; si capovolge la prospettiva e l’arte da sacra diventa tutt’al più narazione di soggetto religioso, prima, e poi sempre più espressione di soggettività e sentimenti privati. L’asse del culto ruota di 90 gradi, si adagia sul piano umano, e da verticale diviene orizzontale così rendendo irriconoscibile la croce. La terra si separa dal cielo. Sempre più chiuso nella bolla della propria razionalità, l’uomo perde progressivamente contatto con le cose, progressivamente rinnega l’evidenza e smarrisce l’uso dei sensi. Nella bolla della razionalità si giunge a vivere soli, sempre più isolati e soli, in compagnia delle proprie astrazioni; i soli sensi che servono, alla fine sono quelli interni; la vita stessa diventa progressivamente interiore e infine precipita interna; la parola perde vita e finisce chiusa in un libro; dalle cose del mondo lo sguardo precipita nelle fantasie. Chiuso nella bolla della razionalità o – come l’altro lato della medaglia – in quella delle fantasie, l’uomo della modernità arriva a perdere ogni contatto: con la terra, con gli altri uomini, con il cielo, alla fine anche con se stesso. Scivola nella virtualità, nella non-vita. Se dovessi descrivere questo tempo su un piano clinico, parlerei di una pandemia di schizofrenia e autismo, la separazione e l’isolamento elevati fino alla sofferenza della dissociazione.
E come nell’arte la nuova prospettiva che apre il Rinascimento nasce da un unico punto, il punto di vista del tutto soggettivo di chi osserva, e termina in un unico punto di fuga immateriale, così la conoscenza dell’uomo stesso va a coincidere con il proprio punto di vista e con il punto di fuga della propria prospettiva; la persona (che è tale in quanto emerge dalla relazione) cede il passo all’individuo, soggetto di coscrizione, registrazione anagrafica e statistica. E anche il tempo della persona, ridotta a individuo, diventa esso stesso un punto, con il fuoco in un presente continuamente mutevole, senza passato, senza futuro. Il suo motto è carpe diem, oggi o mai più, fallo ora, consuma ora, vivi ora ché forse oltre non c’è altro.
Oggi la gente vive così, chiusa nel proprio io, nelle proprie astrazioni, nel solo “qui e ora”, in un’apnea esistenziale grande come un punto senza dimensione, senza respiro. Non vive tra le braccia di chi lo ha preceduto e tra le sue braccia non tiene chi è per venire. Può tenere molte cose a mente se ha un cervello ipertrofico, ma ricordare quasi nulla perché il suo cuore scivola verso l’atrofia.
Fuori da una visione simbolica e concreta, dal punto di vista che ho presentato come medievale, fuori dall’unione di tutto quanto è nella realtà, di passato e futuro, alla lunga resta la frammentazione progressiva, fino alle sue estreme conseguenze: una specializzazione esasperata, un relativismo che sotto l’abito borghese della tolleranza maschera indifferenza e solitudine, il distacco dalla realtà che manifesta la virtualità, la non realtà.
Mi piace ricordare che il contrario di “simbolico” è “diabolico” (la parola greca diaballo indica l’atto di gettare/mettere in mezzo, dunque “separare”). In questo senso, nel senso letterale della parola, possiamo definire diabolico questo nostro tempo fondato sulla separazione, sulla frattura, sullo scisma interiore, comunitario e ontologico.
Chi è separato dal tempo e dalle generazioni non conosce padri, né figli a venire. È mortalmente solo, perché prima di lui non c’è stato e dopo di lui non ci sarà altro che il nulla. Ci sono voluti secoli per costruire un uomo così e ora questo uomo divora tutto e lo fa con voracità e compulsivamente perché fuori da lui non c’è altro e dopo di lui non c’è alcun oltre. Per certi aspetti, non conosce colpa chi divora il cibo dei figli e dei nipoti che non può pensare e non avrà.
Ancora un poco di pazienza.

La separazione di materia e spirito, di anima e corpo – pensiamoci – è esattamente ciò che contraddistingue la morte. La morte si manifesta così, come separazione e disgregazione. La conosciamo tutti. Fa di una persona un fantoccio (un corpo senza anima) o un fantasma (un’anima senza corpo), entrambe parole che condividono la stessa matrice di fantasia, di non realtà (l’immaginazione è tutt’altra cosa e con la fantasia non va confusa). Allora potremmo aggiungere che questo tempo, diabolico, fondato sulla separazione è un tempo di morte. Saliamo in alto fino alla vertigine e dall’alto vediamo che un’era aperta all’insegna dell’incarnazione del divino nell’umano, dell’unione di cielo e terra, di spirito e corpo, ora dopo due millenni si chiude nella virtualità che dell’incarnazione è l’esatto opposto, nell’escarnazione. Se vogliamo, per stare sull’analogia dell’Incarnazione cristiana, quello che si svolge sotto il nostro sguardo pare il tempo dell’anticristo.

Allora va bene tutto. Va bene denunciare la distruzione delle risorse, contrapporsi a chi vuole ridurre la vita a una merce, porsi nella prospettiva di un modo diverso di interagire con il mondo. Va bene. Ma certo va bene anche interrogarsi sulle matrici profonde di questo tempo e dei mali che riconosciamo. Nel tempo della separazione, alla radice – proprio alla radice –, forse nessun autentico, duraturo cambiamento può passare attraverso il fare, la mobilitazione, l’iniziativa politicamente esemplare. Forse per la conversione di questo tempo occorre un riaccordamento, un ritorno al cielo e alla terra, alle generazioni che hanno preceduto e a quello che sono per venire. Uomini frammentati, disintegrati, non possono davvero riaccordare un’epoca alla realtà, portarla fuori dai deliri dell’astrazione, senza prima riaccordarsi, senza riconciliarsi, senza tornare al simbolo. Fuori da questo, ci sono le buone intenzioni, il moralismo, il desiderio pervertito di chi non può fare a meno di sentirsi primadonna nel teatro del mondo. E le buone intenzioni, da sole, sono l’ordito sul quale sono stati tessuti gli stermini e le persecuzioni che hanno avvelenato la storia.

E in assenza di riconciliazione, nella distanza da un modo unitario, organico, concreto, simbolico di vedere la realtà, vive ancora un rischio sottile e letale: quello di opporsi a chi spoglia la vita e il mondo sulla base dei propri progetti di profitto e dominio – astratti, come lo è ogni progetto che nasce dalle idee e non dal mondo – attraverso nuovi progetti altrettanto astratti. Distruggere una foresta per erigere un agglomerato industriale e distruggere quell’agglomerato industriale per reimpiantare la foresta, nel profondo non è diverso: è di segno apparentemente opposto, ma esprime la stessa volontà pianificatrice, lo stesso vecchio uomo che fa e sfa il mondo a suo piacimento e secondo i suoi fini, i suoi progetti, la sua volontà, le sue astrazioni, i suoi obiettivi per i quali non mancheranno mai giustificazioni. Stessa la violenza, stessa la dissociazione, stessa la superbia. Con una differenza, forse: lo speculatore non predica nulla e distrugge per il proprio interesse, per il proprio egoismo, invece l’altro si sente in buona coscienza, ma – ripeto – non fa nulla di così diverso dal trattare la vita e il mondo come una pagina da scrivere, cancellare e riscrivere in ossequio alla propria ideologia e ai propri progetti.
Intanto respiriamo il petrolio che bruciamo, mentre ci dissociamo indignati, e nella dissociazione sopravviviamo attraverso i cespiti dell’usura e del gioco d’azzardo, ché così fino al XIII secolo, se si fossero conosciuti, sarebbero stati concepiti il sistema bancario e il mercato azionario.
Chi riconosce nella vita un dono e non un diritto, chi è unito con la terra e con il cielo, chi vive nel respiro del passato e sa di avere avuto padri, e padri dei padri, non ha l’ansia di innovare quello che c’è già, né di stravolgere quello che si è consolidato nel tempo lungo e attraverso il consenso delle generazioni; non tenta di ricostruire il mondo daccapo; non si sforza di essere originale a tutti i costi, nel bene o nel male.
Ha attenzione per cosa gli è stato consegnato, non lo perverte, non lo sciupa. Riposa nel ricordo di chi l’ha preceduto e di Chi è per sempre.
E l’innovazione, l’avvicina con discernimento e la conosce sempre lenta e solo condivisa.
Nello stesso modo, chi vive nel respiro del futuro e crede che avrà figli, e figli dei figli, li accoglie nel suo ricordo, non divora il loro piatto, non distrugge il loro mondo, non lo colora di steppa, non lascia esondare il deserto, non perverte la terra in discarica, non l’avvolge in un sudario atomico. Perché chi è capace di fare questo è certo che non vive nel respiro del futuro e non crede che avrà figli e figli dei figli; chi fa questo è evidente che è sterile nel cuore, che è come i frutti di questo tempo: gonfi, ignari delle stagioni, artificiosi e senza semi; è chiaro che tra le sue braccia non porta nessuno.
Agisce come se venisse dal nulla, degenera il nulla, viene meno nel nulla.
Ha smarrito la forma e forse è già legione, senza distinzione e senza nome.

Resto su questo piano e porto un ulteriore argomento contro le manipolazioni genetiche in agricoltura, contro le mutazioni indotte, contro gli innesti di materiale genetico là dove in natura non sono mai stati conosciuti. Pensando che chi manipola i semi gioca con la vita senza che la vita sia un gioco. Chi ne stravolge la natura, si fa dio dopo avere spento Dio dentro di sé. A Lui si vuole uguale, non più simile. Divide ciò che nel profondo è unito. Spariglia ciò che è ordinato. Lo fa senza pudore, non conosce la pietà, non conosce il limite. E, mentre lo fa, costruisce la sua perdizione e quella del mondo che vorrebbe ricostruire a sua misura, a immagine distorta di un delirio d’impotenza, di un desiderio insano, gonfio di un sapere senza sapienza.

E l’argomento è questo.
A dispetto di ogni analisi e di ogni argomentazione, la storia di un secolo che ancora non se ne coglie il tramonto ha raccontato a tutti che chi mette mano alla creazione per modificarne i meccanismi più intimi, fino a sovvertire la natura delle cose, quasi sempre provoca tragedie. E così facendo, contraddice il senso del bene comune maturato nel consenso delle genti lungo il tempo delle generazioni. E proprio perché, così facendo si separa dal resto dell’umanità, chi mette mano alla creazione per modificarne i meccanismi più intimi, fino a sovvertire la natura delle cose, cade nell’eresia.


[1] Per spiegare questo punto, rinvio alla lettura del mio “Alle radici della parola cultura”, in Montesquieu.it, biblioteca elettronica su Montesquieu e dintorni, 4 (2012): 217-224, facilmente reperibile in rete.

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