La buona aritmetica della relazione

SULLA BUONA ARITMETICA DELLA RELAZIONE

(inedito)

Stretto nell’abbraccio, il corpo dell’altro ci àncora alla terra. E, perché lo spirito si manifesta e si rende accessibile alla conoscenza attraverso la materia, l’abbraccio dell’altro è anche esperienza concreta dello spirito. Il disprezzo del corpo, chiamato a vivere nella carne, o la volontà d’irreggimentazione della sessualità sono indizio di una riduzione della vita a un concatenamento di fatti più o meno morali: chi se ne fa portavoce indirettamente professa di non credere all’Incarnazione.

Chi è l’altro?

È colui – con noi non fuso e non confuso – dal quale possiamo ricevere una risposta non attesa.

Facendo tara al sentimentalismo e alla passione, cosa sostanzia l’amore è la relazione nella libertà [1].

Se la relazione è sostanza dell’amore, allora con il venire meno della relazione viene meno anche l’amore. E perché è l’amore che fonda e nutre la buona convivenza di una coppia, anche quella perde consistenza e ragione di essere, al di là della sua costituzione sacramentale o giuridica.

Per sua natura, la relazione esiste solo in forma personale, solo di fronte all’altro: l’altro che permane tale finché agli occhi dell’uno custodisce la possibilità di una risposta non attesa. La novità di una nuova conoscenza, di una nuova frequentazione, di una nuova amicizia, di un nuovo abbraccio, e così anche l’innamoramento, sono esperienze dell’altro che comportano al massimo grado questa possibilità.

Se tocco la persona che ancora non conosco, della quale ancora non so compiutamente e dunque non posso prevedere la reazione, non posso essere certo della sua risposta: forse sarà un prudente, ma potrebbe essere un no, un non ora, o un entusiasta. Non posso esserne certo.

Se tocco la persona con la quale sono unito da anni, so precisamente quale sarà la sua risposta. La conosco a fondo per averla misurata molte volte, così a fondo che potrei arrivare a prefigurarla. E alla fine, cedendo alla tentazione di prefigurarla, potrei anche fare a meno di attenderla (la risposta) e, poi all’estremo, di toccare quella persona. So cosa posso fare e cosa non devo fare, cosa apre al e cosa chiude sul no. Non c’è novità nell’azione, né incertezza nella reazione. Anno dopo anno, tutto diventa predicibile.

Così, attraverso lo scorrere nel tempo, venendo meno la possibilità di una risposta non attesa, la relazione si svuota dell’altro. Piano piano il battito si appiattisce, fino a quando il cuore smette di vegliare.

Se dell’altro l’uno può – o crede di – predire tutto, a poco a poco la relazione si perverte in monologhi di pregiudizi, si riavvolge su di sé, su quell’uno che un tempo anche per l’altro era stato l’altro, proprio come l’altro era stato così per lui e ora ai suoi occhi è diventato poco più o poco meno della personificazione di pregiudizi e specchio di disagi.

L’alterità è l’aspetto qualitativo della relazione. Con l’evanescenza dell’alterità, la relazione smarrisce il suo aspetto qualitativo e si solidifica nella misurazione della durata, dell’intensità, della costanza, della sequenza, del tempo nei quali involvono le risposte già previste. Con l’evanescenza dell’alterità, la relazione assume l’abito quantitativo del rapporto.

Una digressione sulla scia di questi pensieri. L’unione sessuale agìta nella relazione non può trovare la sua ragione sufficiente né qualificante nella sola spinta alla procreazione senza scadere ad atto puramente istintuale e biologico che (ornato o mascherato quanto si desideri) trova fondamento in una buona ragione della specie. Ma l’eventualità (pure se poco probabile) che l’unione possa essere anche procreativa la carica di attenzione e rende concreta la possibilità di una risposta libera e non pregiudicata (per chi ama leggere così, anche provvidenziale), comunque non attesa: perché non atteso può essere tanto il concepimento quanto il mancato concepimento. La chiusura pregiudiziale alla procreazione rischia, a lungo andare, di eliminare dall’unione un margine di alterità – non l’unico, ma rilevante – e nel tempo di farla scivolare a un atto ripetitivo privo di apertura. Un atto che, nel processo di autoripiegamento su di sé, rischia di involvere in pratica di autosoddisfazione, concorrendo a mutare la qualità della relazione (tra persone) in rapporto meccanico (tra individui).

In entrambi i casi, sia finalizzata alla sola procreazione sia, al contrario, preclusa alla procreazione, l’unione sessuale smarrisce l’abito simbolico (cioè, unitivo) che la connette con la filigrana della realtà in tutta la sua interezza, diventa pura congiunzione di corpi, lasciando a nudo una natura muta, in entrambi i casi autoreferente e solo biologica, perché sia la semplice riproduzione che la pura ricerca del piacere vivono dentro l’orizzonte chiuso della filogenesi e della biologia [2]. Mutuando dal linguaggio paolino potremmo osservare che, in entrambi i casi, si tratta di unione orientata alla carne e non anche allo spirito [3].

Venendo meno la possibilità di una risposta non attesa, i gesti e le parole si ripetono uguali e prevedibili. Nella benevolenza, nella sopportazione o nell’indifferenza, si comincia a dire: ‘Mi sento dato per scontato’, ‘Mi dài per scontato’, ‘Mi sento invisibile’, ‘Non ti vedo più’. Sotto una patina bonaria e magari affettuosa, l’abitudine e la confidenza distratta possono nascondere un veleno che per la relazione di coppia si rivela letale quando, assunto e somministrato nella quotidianità della convivenza o della frequentazione, porta ad anestetizzare l’attenzione verso l’altro, a metterne la figura fuori-fuoco fino a renderla indistinta [4], a devitalizzare in automatismi gesti e parole che, invece, chiederebbero impegno e cautela, come dovrebbe essere in una relazione dove la distinzione reciproca è mantenuta protetta.

I limiti, mai rigidi, convenuti nella concordia, che l’altro è bene non travalichi, al di qua o al di là dei quali la forma inizia a svanire o ci si perde di vista, non sono barriere di chiusura ed esclusione, ma pegni di una tenerezza pedagogica adatta a rinforzare la permanenza della relazione. In difetto dei quei limiti, quando è esiliato dall’abitudine ai margini del campo percettivo, il corpo dell’altro diventa immagine di sfondo, la sua voce mormorio di accompagnamento.

Non pare raro che l’attenzione per cosa ancora non è del tutto prevedibile arrivi a pervertirsi nella noia per cosa è fin troppo ben noto, perché proprio la noia è il sentimento che, nel ripiegamento su di sé, presiede alla ripetizione e alla prevedibilità che ne consegue. Ed è nel ripiegamento su di sé che l’atto erotico si capovolge in atto autoerotico, agìto attraverso la connivenza o l’uso dell’altro, a sua volta impegnato in un atto autoerotico o relegato in un ruolo passivo. Quello che è stato l’altro è ora ridotto a poco più di una sua parte, o a una somma di parti da fruire per un privato appagamento, rispetto al quale la reciprocità e la condivisione non rilevano più.

La gioia, che per propria intima natura non può essere che comunionale e reciproca, lascia così il campo alla soddisfazione individuale; l’una per l’altro, reciprocamente, le persone diventano individui; la relazione degrada in rapporto; le forme dell’immaginazione sono sostituite da fantasie quasi autistiche; il contatto con il corpo dell’altro involve in un sostanziale autocontatto in forma mentita.

Quando nel processo di svuotamento si mortifica, ci si mortifica e si è mortificati – alla lettera: ci si fa e si fa ‘morti’ –, lo scioglimento o l’esplosione del rapporto nel quale è involuta la relazione non sono solo risposte autoconservative (e solo per questo ‘sane’), seppure dolorose, ma possono essere lette anche come paradossali dichiarazioni d’interesse e sostegno per l’altro venuto meno come altro e, nello stesso tempo, per la propria alterità sfuocata e ancora non svanita: risposte che, anche quando e per quanto condotte in forma e misura devastante, nel profondo tradiscono l’apertura a un desiderio di vita, laddove invece l’acquiescenza nel disagio in qualche misura collude con le sue cause e le sue circostanze e accompagna la necrosi che ne deriva. Ci si può fare poco o tanto male, accollarsi ed accollare il debito della separazione e il prezzo della sua non reversibilità, ma spegnere il desiderio e, così, spegnersi è peggio, e farlo nel silenzio complice o nell’apatia è tragicamente autolesivo.

Nell’innamoramento e, dopo, fin tanto che permane l’apertura all’altro e la possibilità di una risposta non attesa, uno più uno fa certamente due [5]. Oppure tre, se insieme i due si aprono a un terzo (si tratti – congiunti o disgiunti – dei figli, di un ideale, della comunità o della comunione del divino con l’umano, o di altro ancora) che decentri la coppia consolidata e la rilanci nella danza circolare della relazione. Il due che scaturisce dall’alchimia della passione è reale, potente, ma fatalmente provvisorio: nel tempo, il ripiegamento di ciascuno su di sé scompone la somma nelle due unità di partenza, pervertendo la buona aritmetica della relazione. Nella media-lunga durata, non c’è alcuna ragione decisiva perché uno più uno possa continuare a fare due. Detto in altre parole e proseguendo sulla suggestione dei numeri, questa semplice aritmetica racconta che se per un primo tempo uno più uno normalmente fa due, a lungo andare se non diventa tre normalmente torna a essere uno più uno e dunque, per ciascuno singolarmente, solo uno.

Se il riconoscimento della reciproca libertà [6] e della non completa prevedibilità dell’altro sono condizione perché sussista il rapporto di alterità, tuttavia non sono ancora una sufficiente garanzia per la sua durata; nella progrediente fioritura (o incipiente sfioritura) della coppia, l’apertura al terzo [7] pone la condizione di un’alterità che la abilita a reggere l’usura nel tempo.

Il corpo dell’altro ci àncora alla terra. Ma cosa vive sulla terra è soggetto alla giostra delle stagioni, e muove per aggregazione e disgregazione, abbraccio e separazione, accoglienza e commiato; la necessità è solo una somma di possibilità realizzate, e, applicate al gioco delle relazioni, persino le regole dell’aritmetica perdono il loro astratto rigore e l’abito della necessità. La danza della relazione che nell’impegno della durata non vuole cedere al ripiegamento –  lo racconta l’esperienza comune – non è improbabile che a poco e poco diventi sempre più onerosa e difficile da sostenere se al suo interno non arriva a coinvolgere cosa accompagna l’amore oltre l’abbraccio esclusivo e il breve tempo della vita biologica.



[1]      Associare la libertà alla relazione non ha valore argomentativo, ma rafforzativo. Questa associazione – per come le parole qui sono allineate su un significato costante – è superflua e potrebbe sembrare una ripetizione (utile solo perché rafforza la parola ‘relazione’), perché fuori da una cornice di libertà non si manifestano relazioni ma rapporti.
[2]      L’esempio illustra una considerazione generale, non è una critica cieca alla contraccezione ignara di tutti quei casi nei quali è opportuna o anche necessaria, né giudica l’astensione dalla procreazione. È un esempio, non un argomento normativo: chi afferma che il latte fa bene non ha necessità di specificare che, però, non fa bene a chi non possa digerirlo o ne sia intollerante, né giudica chi non lo voglia.
[3]      Sull’uso che Paolo di Tarso fa di questi termini, vedi p. es.: Lettera ai Romani, 8. Ch. Yannaras (Ontologia della relazione, ed. or. 2004, Città Aperta, Troina 2010: 157) arriva persino a definire irrazionale il desiderio ‘che si esaurisce nel bisogno e nella finalità dell’autonomia biologica’, quello legato alla tendenza alla conservazione e al piacere individuale.
[4]      Portare qualcosa troppo vicino agli occhi ne sfigura la forma e poi la dissolve, succede lo stesso con l’eccessiva lontananza. Le buone ragioni dell’ottica e degli affetti raccontano che ci sono soglie di distanza minima e massima sotto e oltre le quali un oggetto e una persona vanno ‘fuori fuoco’: per scongiurare i controeffetti distorsivi della distanza si usava – e sempre meno si usa – portare con sé una lettera o una fotografia della persona amata.
[5]      Questo non si dà nel rapporto narcisistico, dove in partenza nell’uno non c’è spazio per l’altro se non in riferimento al rispecchiamento di sé. In questo rapporto, fin dall’inizio, uno più uno fa solo uno.
[6]      Senza la quale nessun impegno o vincolo possono esser condivisi in autonomia e alterità, ché senza libertà non c’è patto, ma solo necessità o costrizione.
[7]      E aprire significa anche solo rendere possibile, e non implica che il terzo si renda presente: la disposizione all’accoglienza non implica la condizione dell’ospitalità.

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