Di segni e simboli sacri

Spunti di riflessione

Una realtà che è più di se stessa. Questa è la definizione fondamentale del simbolo. Esso è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però attraverso esso si rivela nella sua essenza.[1]

Viviamo in un mondo intessuto come di fili che magicamente legano ogni cosa è al suo interno, e dove tutto vive legato con cosa è stato e con cosa è per essere, e dove noi, ciascuno di noi, è legato a tutto questo. Lo suggeriscono le sensazioni sottili e sfuggenti che a volte ci toccano e ammiccano alla comunicazione silenziosa o distante, ai fenomeni di precognizione, al senso di familiarità con qualcosa che si ritiene di non avere conosciuto, e così lo suggerisce tutto ciò che, inconsueto ma non estraneo, stimola una smorfia di sufficienza in chi traduce la vita solo in quantità misurabili e unità di valore.

Sentiamo in modo diverso: c’è chi sente con gli altri; chi sente con ogni cosa che vive, fino agli animali e alle piante; chi arriva a sentire un’impronta emotiva anche nelle cose inanimate – e qualcuno potrà pensarlo matto; poi c’è chi sente da solo; e chi nulla e non sente più, come chi è già morto. Gli animali sentono il pericolo prima che arrivi, è normale e lo ripetiamo senza stupore. Vivono a contatto diretto con il mondo, ed è un contatto non mediato. I ruminanti abituati al pascolo sanno quali erbe non devono mangiare per non intossicarsi: per dare a questo un nome e acquietarci, diciamo che è un sapere “innato”, “istintivo”, pur non sapendo bene cosa significhi. Invece, i ruminanti che nascono e vivono in una stalla e sono alimentati solo con il mangime, se escono sul pascolo sono in pericolo, perché non sanno riconoscere le erbe da non mangiare. Hanno perso contatto. Sono in pericolo.

È facile pensare che i bambini abbiano più contatto con la filigrana del mondo di quanto ne abbiano gli adulti, e chi vive nell’oralità più di chi abbia ricevuto un lungo addomesticamento scolastico, e le culture arcaiche e i popoli nativi più di quelli formati nel tempo della telematica, e chi produce il proprio cibo più di chi non ne sappia la provenienza e la ragione. Noi, tutti noi, non come individui, ma collettivamente come popolo e cultura, siamo passati in breve tempo da una rete fitta di connessioni con il mondo e i piani della realtà – e così dicendo intendo cosa si può vedere e cosa non si può vedere -, di legami con la terra e con il Cielo, con chi ci ha preceduto e con chi è per venire, per arrivare a uno stato di solitudine senza contesto, sedati nella distrazione, un po’ oscillando tra noia, stordimento ed eccitazione, sotto un cielo che si è solidificato come una calotta di cemento e, come una morsa, si è chiuso sopra di noi che non possiamo e non sappiamo più vedere le stelle[2]. Abbiamo perso contatto. Siamo in pericolo.
Quando il deserto cresce dentro di noi, alla fine di noi, sotto la maschera, non resta che un guscio vuoto, magari lucido e “performante”, come oggi piace dire. E a quel tessuto di fili che unisce a tutto e a tutti, si sostituiscono informazioni innumerevoli e ridondanti che, affaticandolo, ci riempiono il cuore, come la paglia dell’imbalsamatore.
Ma la ricerca dei significati, il desiderio di un senso che li orienti restano comunque connaturati – è forse l’eco dell’archetipo interiore?[3] – e il nostro bisogno di significati è potente, tanto più pressante quanto maggiore è la difficoltà di coglierli e capirli, così come non sa più cogliere e capire la scrittura chi torna analfabeta. E nel bisogno di significati, così pressante, così urgente, inventiamo i segni e li moltiplichiamo, qualche volta in disegni incomprensibili, labirinti dove ci perdiamo o vantiamo di possederne, in pochi, la mappa e la via di uscita da cosa noi stessi abbiamo costruito e complicato, e dove, da soli ci siamo confinati. Moltiplicare inutilmente l’Uno e complicare cosa è semplice e rinchiudere in uno scrigno barocco cosa è comune, può animare un gioco di società, offrire un innocuo rifugio consolatorio dove sentirsi “eletti”, ma può anche diventare una malattia dell’anima.
È proprio la ricerca senza un oriente, quanto più si perde contatto con il mondo, che va a tradursi nella moltiplicazione dei segni: così, nel tempo dell’indifferenza, dove tutto diventa uguale a tutto e, alla fine, nulla è più uguale a se stesso, ogni espressione è chiamata arte; ogni testo, letteratura; ogni suono, musica; ogni informazione, cultura. Ma non può essere così. E occorre cuore forte e animo sereno per dire cosa è e cosa non può essere, perché con la vita non si può essere “politicamente corretti”: non c’è abbastanza tempo da sciupare compiacendosi negli indugi. Le cose non sono indifferenti e nulla è uguale a tutto. Il bello è. Perché se così non fosse, se fosse bello “cosa piace”, allora sarebbe giusto “cosa conviene”, e vero “cosa convince”, e bene “cosa torna utile”. Il solo genio di questo caos sarebbe il capriccio.
E quando tutto diventa uguale a tutto, ogni segno è chiamato simbolo.
Questa parola nasceva in tempi remoti come prova dell’alleanza: quando veniva stretto un patto, per sancirlo, si chiamava a testimone un monile, un documento, un oggetto qualunque da spezzare o tagliare in due parti, ciascuna conservata da uno dei due contraenti, così i loro discendenti, accostando le due parti e facendole combaciare, si sarebbero riconosciuti attraverso il segno ricongiunto[4]. Nasceva così il simbolo, nella ricomposizione dell’unità spezzata, come rivela l’origine della stessa parola, che deriva dal greco syn-ballein (“mettere insieme”, dunque “congiungere”).
Anche noi – ciascuno di noi – siamo parte di un simbolo. Lo insegna Platone nel Simposio, dove racconta quando gli uomini partecipavano delle caratteristiche del maschio e della femmina fuse insieme, ed erano potenti e orgogliosi, al punto di volere dare la scalata al cielo. Gli dèi decisero di punirli, ma non volevano «ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini». Allora Zeus, per colpire la loro arroganza, pur lasciandoli sopravvivere, decise di tagliarli in due parti, «come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo». E di ciascuno di loro – e, dunque, di noi – fece la metà di un intero, condannandoci a cercare la parte mancante se vogliamo completarci e ritrovare l’unità, «desiderando null’altro che di formare un solo essere»[5]. Nel parlare semplice e corrente non si dice forse “la mia metà”, per indicare chi ci accompagna nella vita, così traducendo nel senso comune l’insegnamento platonico? E la stessa espressione “mettersi insieme” non è forse moneta corrente nel linguaggio popolare dei giovani? Così siamo naturalmente portati a cercarci, complice Eros, chiamato in aiuto da Zeus per guarire la natura ferita dell’uomo; e proprio il desiderio – l’eros, non l’erotismo – rivela la “condizione simbolica dell’uomo” [6].
Siamo parte di un’unità divisa e ancora siamo simbolo per tutto quello che ci precede, che attraverso noi è per venire, e per ciò che ci trascende e attraverso di noi si manifesta.
Cosa uniscono i simboli? Nella filigrana del mondo uniscono e mettono in comunicazione i piani della realtà: sono porta e ponte; ricompongono l’unità fra l’essere e le sue manifestazioni; aprono una scala nel Cielo; permettono di accedere al mondo invisibile. È attraverso un simbolo – il segno della croce: tracciato unendo la fronte, il centro del corpo e le due spalle – che entriamo in chiesa. Non importa se si crede o a cosa si crede. Con quel segno si entra in una chiesa e si fa il primo passo per entrare in contatto con l’Invisibile; altrimenti si entra solo in un edificio: di mattoni o di cemento, spoglio o decorato, romanico o barocco; anche se ricco di fregi dorati e dipinti, resta un edificio, un museo se si vuole, e intanto la chiesa resta invisibile allo sguardo. In altri luoghi sacri ci s’inchina, ci si toglie le scarpe o ci si copre il capo: senza, non si entra in un luogo sacro, ma altrove, in uno spazio geometrico, nel volume di un manufatto, e non ci si avvicina alla parte invisibile di quel luogo. Così, con altri significati, lo potremmo dire di una casa o di un bosco e, nel bene o nel male, di ogni luogo.
La differenza tra il simbolo e l’allegoria non si pone, dunque, sul piano formale, ma su quello ontologico. Il simbolo esprime un valore ontologico: non lo rappresenta, ne è parte e quindi esso stesso partecipa del ontologico che esprime; l’allegoria, invece, concentra un significato didattico, culturale, morale, ma non un valore ontologico. Mentre le allegorie hanno una funzione didascalica e, a loro volta, richiedono di essere spiegate, i simboli – porte aperte sulla soglia fra il mondo visibile e quello invisibile – hanno il carisma dell’evidenza e non dovrebbero avere necessità di essere spiegati: come nulla di cosa vive, se solo un poco ancora siamo in contatto con la vita e non con una sua rappresentazione, ha necessità di essere spiegato. Perché all’evidenza può bastare il silenzio.
A differenza delle allegorie, i simboli sono preesistenti alla parola: ci sono, non si costruiscono; se si presume di costruirli è perché – perso il contatto – non li sappiamo riconoscere in noi e intorno a noi, e, al loro posto creiamo segni impliciti e involuti, spesso ottusi nella loro chiusura all’evidenza, criptici e bisognosi di essere tradotti e spiegati. Questi segni, quando sono accessibili solo a pochi, sono la manifestazione di un distacco dall’umanità, ed «essendo contrapposti ai simboli autentici [...], e per di più esaltati al di sopra di questi, diventano facilmente fonti di eresia, cioè di secessione e [...] di settarismo»[7].
Si può inventare cosa non c’è; cosa già esiste non si può inventare, si può riconoscere, si può trovare. I simboli non s’inventano: si riconoscono, si trovano.
I simboli non sono qualcosa di convenzionale, creato da noi per piacere o per capriccio. I simboli sono costruiti dallo spirito in base a determinate leggi e con una necessità interiore; e ciò accade in particolare ogni qual volta cominciano a funzionare in modo particolarmente intenso alcune parti dello spirito. [...] Le allegorie si fanno e si distruggono; le allegorie sono qualcosa di nostro, di puramente umano, convenzionale; i simboli affiorano e nascono nella coscienza e da questa scompaiono, ma di per sé sono eterni procedimenti di scoperta interiore, eterni per la loro forma[8].
Allora, come si può distinguere un simbolo da un segno comune? Per la sua capacità di aprirci alle fondamenta della vita, a cominciare da cosa la vivifica e le dà forma, ma anche attraverso il suo riconoscimento universale – come insegna Pavel A. Florenskij negli scritti che hanno nutrito e illuminato queste note -, condiviso dagli uomini nel tempo lento delle generazioni, come atto di compresenza[9]. E tutti possiamo riconoscerlo: se e perché partecipiamo a una stessa coscienza comune e a un comune senso dell’evidenza; se e perché coltiviamo «l’interiore certezza che dietro ogni apparenza concreta esiste un principio formale e formativo»[10]; se e perché ancora non abbiamo perso il contatto con la filigrana del mondo e con la parte più sottile e luminosa di noi stessi.

Bibliografia

Angelini, 2011: Massimo Angelini, Nota sugli archetipi, in Ludus Triumphorum: carte da gioco o alfabeto del destino, a cura di Paolo A. Rossi e Ida Li Vigni, Nova Scripta, Genova, 2011.
Belyi – Florenskij, 1904: Andrej Belyi – Pavel A. Florenskij, L’arte, il simbolo e Dio. Lettere sullo spirito russo, a cura di Giuseppina Giuliano, Medusa, Milano 2004.
Capitini, 1966: Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966.
Florenskij, 1920: Pavel A. Florenskij, La venerazione del nome [inizio anni 1920], in Il valore magico della parola, a cura di Graziano Lingua, Medusa, Milano 2003.
Florenskij, 1922: Pavel A. Florenskij, Iconostasi [Ikonostas, 1919-1922], a cura di Giuseppina Giuliano, Medusa, Milano 2008.
Galimberti, 2001: Umberto Galimberti, Introduzione a Platone: Simposio, Feltrinelli, Milano 2001.
Guénon, 1945: René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi [Le Règne de la quantità et le sign des temps, 1945], Adelphi, Milano 1982.
Schneider, 1971: Marius Schneider, Natura e origine del simbolo, in «Conoscenza Religiosa», 1971, 4.
Zolla, 1981: Elemire Zolla, Archetipi [Archetypes, 1981], a cura di Grazia Marchianò, Marsilio, Venezia 2005.


Note

[1] Florenskij, 1920: 28.
[2] Sono debitore di questa metafora a René Guénon, (1945: XVII, «Solidificazione del mondo»).
[3] Angelini, 2011: 161-168. Per una compiuta riflessione sugli archetipi: Zolla, 1981.
[4] Ritroviamo la ricomposizione dell’unità, segno dell’alleanza, nel gesto del sacerdote che, nel rito cattolico, durante la liturgia eucaristica, spezza l’ostia e la riunisce elevandola in alto sul suo capo e sopra i fedeli. E, in tutt’altro campo, la ritroviamo alle spalle di Genova, nella pratica dei contadini che fissavano il confine tra i terreni sotterrando un termine di pietra che prima spezzavano, consegnando il moncone a una terza persona: un uomo del villaggio ritenuto giusto da entrambi, che avrebbe conservato e mostrato quel moncone, in caso di contestazione, per testimoniare l’autenticità del pezzo interrato.
[5] Per questa e le successive prossime citazioni tratte dal Simposio, ho usato il testo curato dal Giardino dei Pensieri, in http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/.
[6] Galimberti, 2001: 28.
[7] Florenskij, 1922: 68.
[8] Florenskij ad Andrea Belyj, lettera del 18 luglio 1904, in Belyi – Florenskij, 1904 (2004: 53-54).
[9] ”Compresenza” è una parola preziosa che attingo dal pensiero di Aldo Capitini (1966).
[10] Schneider, 1971.

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