Tracce del sacro nello spazio rurale

Massimo Angelini

TRACCE DEL SACRO NELLO SPAZIO RURALE

La differenza tra spazio e luogo è familiare per il nostro senso comune: [1] lo spazio è geometrico, misurabile attraverso unità di misura fredde e impersonali, res extensa cartesiana, oggetto di accatastamento e di proprietà, categoria comune agli agrimensori e agli astrofisici, dove il deserto non è differente in qualità dalla terra abitata. Qui, riferendoci al mondo rurale, ci curiamo piuttosto di luoghi, spazio vissuto, intersezione di tempo, territorio e comunità, comunità di persone compresenti con tutto quanto le circonda, dove in filigrana vive la realtà immateriale che sta dietro e sotto quell’intersezione e traspare nel mondo visibile attraverso le sue manifestazioni simboliche.
Dei luoghi, terra di memoria e orti di cultura, non si può essere proprietari, ma solo abitanti, viandanti o testimoni, oppure custodi. E i luoghi, bisognerebbe provare a guardarli come un testo – textum: un tessuto, appunto, dove s’intrecciano orditi e trame – per riconoscere gli elementi che, uniti l’uno con l’altro, ne possono permettere la lettura. [2] Come una lettera isolata è solo il segno di un suono, mentre unita con altre lettere può formare una parola ed essere il veicolo di un significato, e come, allo stesso modo, una parola s’impoverisce di senso se è astratta dalla frase dove è inserita, così cosa è e avviene in un luogo può essere letta all’interno di un lessico e di una sintassi locali, per certi aspetti, e universali, per altri. Fuori dal testo, le chiese non sono che edifici, le sorgenti polluzioni di acqua, i terrazzamenti strisce di terra sostenute da muri a secco; una finestra, astratta dalla luce è legno e vetro[3] E le parole solo suoni e segni indecifrati.
Fuori dal testo non ci sono luoghi, ma solo territorio, oggetto di misurazione geometrica, e paesaggio, oggetto di fruizione estetica: quasi come avere tra le mani un racconto voltato al contrario senza accorgersene e compiacersi, come unico elemento significante, della sola qualità della carta o solo vedere ghirigori d’inchiostro o una macchia chiara diffusa sul fondo nero. E il racconto?
Tra le lettere che compongono l’alfabeto dello spazio rurale, alcune introducono ai confini mobili fra il colto e l’incolto; altre si prestano per una lettura politica della comunità locale e raccontano di alleanze e di competizione per l’accesso alle risorse, quelle materiali e quelle immateriali; alcune sono legate alla trasmissione di conoscenze e consuetudini; altre segnano la posizione e l’uso comune di luoghi consacrati, e danno forma a parole che parlano di culto e di sacro e introducono all’asse verticale della trascendenza sul quale comunicano i mondi. Sono trame diverse, mai isolate, dove su piani distinti si possono leggere – solo per porgere pochi esempi, quelli che toccheremo – il linguaggio delle campane, i percorsi delle rogazioni, la grammatica dei posti in chiesa, la benedizione dei terreni conquistati all’incolto. E sono piani che non si escludono, ma si compenetrano, si spiegano reciprocamente, e possono concorrere a tracciare un glossario del mondo rurale [4] organizzato attraverso comportamenti e manufatti che testimoniano saperi consolidati nel tempo delle generazioni, e – se ci fermiamo all’aspetto del sacro, come i gesti di benedizione, le immagini apotropaiche, la struttura totemica del campanile [5] – che talvolta rivelano un potente valore di ponte fra il visibile e l’invisibile.
Forse è superfluo annotare che la lettura del mondo come testo è possibile ovunque; non so immaginare che conosca limitazioni: il principio è sempre quello che ogni cosa – legata a ogni altra da una rete fittissima di connessioni – è traccia e segno, oltre che di sé, anche di ciò che, visibile, è a essa legata e di ciò che, invisibile, la sostiene e la rende viva. Benché valga nello spazio rurale come nel cuore della città, nei territori abitati o segnati dall’uomo come in quelli dove l’uomo è poco o nulla presente, qui mi soffermo soprattutto sulle terre rurali dove abito, perché conosco gli idiomi dei gesti e dei comportamenti che le animano, e perché le tracce del sacro nel mondo rurale sono meglio visibili che altrove: forse per una persistenza, debole ma ancora viva, di un senso della Provvidenza che risponde alle necessità – magari risponde in silenzio, ma anche di questo si può cogliere un senso. E di affidarsi, in quel mondo, ce n’è stato bisogno per sostenere l’incertezza dei raccolti, i capricci del tempo, l’incombenza di malattie e di infortuni; mentre viene da domandarsi quale spazio resti alla Provvidenza nel tempo della previdenza sociale (benedetta! beninteso) e delle assicurazioni, delle previsioni meteorologiche dettate dal satellite e delle notizie “in tempo reale”, dell’orologio al polso e della connessione continua. Quasi tutto è prevedibile, quasi tutto è garantito, e quello che non risponde alle certezze e contraddice la superbia va rimosso come un tumore. Oppure attira con forza irresistibile.
Nel mondo rurale il cielo è ancora visibile, il vento è ancora spirito che soffia, e le mani più facilmente possono toccare gli elementi che radicano alla vita: la terra, quando non è avvelenata; l’acqua, quando non è addomesticata. Anche nelle città esiste tutto questo, ma mascherato e contraffatto dalle materie estratte dai recessi del sottosuolo, stretto tra il bitume che ha pietrificato la terra e la caligine che ha oscurato il cielo; in mezzo: cemento, silice, acciaio e scorie indecomponibili.
E, poi, in quel mondo, ma sempre più residuali, ancora esistono le stagioni: quelle del giorno, dell’anno e della vita, mentre in periferia di quel mondo quasi non si conoscono più le stagioni del giorno (ché talvolta è difficile distinguere la luce del sole da quella artificiale), né quelle dell’anno (ché pare normale trovare gli stessi prodotti ogni mese), né quelle della vita (che non dà imbarazzo forzare i bambini a imitare goffamente gli adulti né agli anziani comportarsi da adolescenti).

Esempi semplici
I segni possono sempre raccontare qualcosa che vada oltre la loro apparenza, gli oggetti qualcosa che vada oltre il loro uso; così le storie possono accompagnare lontano, ben oltre l’atto della narrazione, e le parole fino alle origini dell’umanità.
Pochi esempi semplici di cosa si può leggere passeggiando fra i campi. Pali di castagno infissi sul margine di una strada raccontano che in inverno lì nevica in abbondanza e serve qualcosa che indichi quel margine agli spartineve. Certi fiori bianchi che a primavera macchiano i fianchi delle vallate rallegrano lo sguardo degli ingenui se fanno pensare a frutteti, ma sono prugnoli infestanti che colonizzano la terra lasciata all’incuria e segnano l’abbandono. Le conifere piantate accanto a una casa rurale, magari sul versante del sole, dicono che probabilmente lì contadini non ce ne sono più e il loro posto è stato preso per la villeggiatura: perché non conosco un contadino che pianterebbe pini o abeti, comunque non vicino a casa e tanto meno, nelle valli interne e fredde, per farle ombra. Un filo elettrico posto a un palmo dal terreno per cintare un campo racconta la presenza dei cinghiali, e se si aggiungono sulla stessa cinta delle fettucce o delle corde a un metro e più dal terreno, allora il segno della presenza si estende ai caprioli o ai daini, e in tutti questi casi le colture sono in pericolo e i raccolti devono essere protetti; a sua volta, la diffusione di cinghiali e caprioli racconta l’arretramento dei contadini o la loro scomparsa.
Così, ogni cosa è densa di senso se riferita a ciò che la circonda e la sostiene, e lo è ancora di più quando si discosta da una regola o da una consuetudine che la riguardano. I piani di lettura, dicevamo, possono essere molteplici e ben diversi tra loro: rinviano a significati (come negli esempi semplici appena suggeriti), o a vicende, o a relazioni costanti nel tempo, o ad antinomie, o a realtà più reali e nitide di cosa sbiadito le esprima.

Le donne a settentrione
Il posto assunto in chiesa durante la messa non è indifferente, non è neutrale: questo è ciò che si poteva dire almeno fino ancora a pochi decenni fa. Oggi, tolte poche occasioni (come i matrimoni e i funerali dove nessuno che non sia intimo degli sposi o della persona morta penserebbe di sistemarsi in prima fila o di aprire la processione che accompagna il feretro al cimitero), le persone hanno per lo più smarrito il senso della posizione e si sistemano secondo abitudine (e l’abitudine qualche volta vuole ancora dire qualcosa), come capita o dove si trova posto: se di questo sussistono margini di lettura nelle campagne, in città non ne ho trovati. [6]
Come nei rituali collettivi e nelle processioni, così anche la disposizione negli spazi del sacro racconta storie di gerarchie e di conflitti sociali, e lo scostamento dalla regola canonica consolidata dalla tradizione può essere la traccia per cogliere le divisioni e gli equilibri che hanno animato o animano la vita della comunità locale. [7]
Secondo un uso consolidato che attinge alla tradizione patristica, in chiesa le donne sono separate dagli uomini. [8] Un tempo la separazione era segnata da un assito alto da uno a due metri: alle donne erano riservati sedili con inginocchiatoio, mentre gli uomini stavano in piedi o tutt’al più potevano usare panche laterali senza inginocchiatoio. [9] La parte delle donne si trova a sinistra di chi entra (oppure – invertendo il punto di osservazione – alla destra dell’altare, se si guarda dal tabernacolo e si pensa alla pianta della chiesa come immagine del Crocefisso: con la testa posata sull’altare, le braccia stese sulle navate laterali, il corpo steso lunga la navata centrale, e i piedi posati sull’ingresso: ma da ora in avanti segneremo le posizioni solo rispetto alla porta di ingresso).
L’orientazione delle chiese per lungo tempo è stata legata a una regola risalente alle Costituzioni apostoliche e ripresa dai Padri della Chiesa, che voleva l’abside rivolto a oriente: non un oriente generico, ma quello equinoziale;[10] la posizione poteva essere capovolta solo se il sacerdote avesse officiato la messa di fronte al popolo, comunque rivolto verso oriente; altre orientazioni non potevano essere ammesse senza il benestare del vescovo. Anche se questi elementi non sono stati oggetto di normazione da parte del concilio tridentino [1545-1563], tuttavia sono stati dettati in modo autorevole nel 1577 da Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, che li ha attinti dalla prima patristica e sono agilmente riconoscibili nelle chiese romaniche e in quelle costruite dalla fine del secolo XVI; mentre oggi, e da molti decenni, questa regola non è più seguita e, come le persone non sanno se hanno e quale sia un loro posto in chiesa, così le chiese sono costruite nel rispetto di un piano regolatore ma non più di un’orientazione significante.
Siccome l’abside è rivolta verso Oriente, allora la posizione delle donne corrisponde alla parte settentrionale della chiesa; [11] mentre gli uomini rispetto all’ingresso occupano il lato destro al quale la Chiesa ha attribuito un maggiore valore, confermato dal fatto che sullo stesso lato si legge il Vangelo (mentre da quello delle donne si legge l’Epistola) e normalmente è eretto il campanile. La preminenza del lato destro rispetto al sinistro è stata argomentata in termini di maggiore dignità, a volte con spiegazioni macchinose e poco convincenti; [12] qui ci limitiamo a notare che la posizione delle donne è a settentrione, e corrisponde alla parte notturna della chiesa, quella più scura, lunare, opposta al moto del sole che percorre la volta celeste con un semicerchio declinato a Meridione da Levante a Ponente. La rilevanza di questo aspetto trova conferma quando l’abside è rivolto a occidente (in questo caso, però, con il sacerdote rivolto ai fedeli) e il posto delle donne è situato alla destra di chi entra.
Le eccezioni sono spie e lacerti di una storia.
Nella chiesa di sant’Antonio a Pòntori (vicino a Genova, come le località alle quali si riferiscono i prossimi esempi), nel 1992, avevo osservato che le donne sedevano a destra e gli uomini a sinistra, anche se l’abside è canonicamente orientato verso Levante; in più, anche il campanile era stato costruito a sinistra, pur non mancando lo spazio per costruirlo a destra, come sarebbe stato facile prevedere. Gli abitanti del posto non sapevano spiegare il fatto e forse non capivano neppure il senso della mia domanda, perché loro – dicevano – si sistemavano così da sempre, comunque da un tempo che precedeva la memoria collettiva, senza nessuna particolare ragione. Ma una ragione c’è e ne resta traccia nell’archivio parrocchiale dove, in un manoscritto steso da un erudito locale agli inizi del secolo XIX, si riferisce che al tempo della costruzione della chiesa [1775] il trasporto dei materiali era stato fatto principalmente dalle donne che, per questo merito, ottennero la parte altrimenti destinata agli uomini, sia per i posti a sedere, sia per il sepulcrum mulierum. Così ancora oggi a Pòntori le donne siedono a destra; e ancora oggi la parte destra della chiesa, dove non si trova alcun campanile (eretto a sinistra, dalla parte rimasta agli uomini), è chiamata il “campanile delle donne”. [13]
Lo scostamento dalla regola, come mostra questo caso, racconta una vicenda ignota ai suoi protagonisti: come se i loro gesti e usi fossero il residuo fossile di vicende delle quali, in assenza del manoscritto conservato in sacrestia, potrebbe anche non esistere altra traccia.
Così le differenti configurazioni dei posti in chiesa ci parlano di fatti remoti e di natura diversa. Oggi alcune di quelle differenze, ancora venti anni fa testimoniate dalla consuetudine dei più anziani, non sono più leggibili.
Nella stessa valle di Pòntori, nella chiesa di san Martino della Caminata, da una parte sedevano gli abitanti della frazione Adreveno e dall’altra quelli della frazione Tolceto: in ciascuna parte, insieme uomini e donne, sedevano gli abitanti nella stessa frazione sul lato a essa corrispondente. Questo è l’indiretto e inconsapevole ricordo di quando, nel 1612, la chiesa era stata eretta a metà strada tra le due frazioni sostituendone le rispettive chiese.
Poco distante, nella chiesa di san Biagio di Chiesanuova, nata dalla fusione di quattro parrocchie avvenuta nel secolo XVII secolo, fino a pochi anni fa i più anziani delle frazioni corrispondenti a tre di quelle parrocchie si sistemavano separati in spazi distinti della chiesa e orientati, come nel caso della Caminata, dalla parte delle proprie frazioni.
A Voltaggio, la divisione dei posti non passava né per genere, né per quartiere, ma secondo l’appartenenza ai tre oratori del paese.
Ancora oggi, a Bargagli la divisione rinvia alle due principali parentele del paese (e ai loro alleati) – i Moresco a sinistra, i Cevasco a destra – protagoniste di una faida sanguinosa durata per ampia parte del secolo XVII, fino a quando l’arcivescovo di Genova non aveva imposto l’accesso da porte separate e la separazione dei posti, per evitare che i membri delle parentele in conflitto si potessero incontrare. Anche in questo caso, come negli altri ricordati, alcuni tra i più anziani affermano di occupare la loro posizione da sempre senza saperne il motivo; anche in questo caso, l’inerzia delle abitudini, vero fossile sociale, testimonia eventi ormai scomparsi dalla memoria della comunità: qui una faida; altrove divisioni di quartieri, corporazioni di mestieri, oratori, o gerarchie locali segnate dai banchi acquistati dai maggiorenti della parrocchia e collocati tra le prime file. [14]

Il gallo si tiene comunque
Anche la posizione del campanile tradisce informazioni sulla storia e la configurazione sociale del luogo. Se opposta alla posizione canonica, quella che vuole il campanile a destra dell’ingresso e quindi sul lato meridionale della chiesa, può indicare un’inversione dei posti a sedere tra uomini e donne (come nel caso di Pòntori), oppure un’inversione del verso della chiesa con l’abside al posto della porta d’ingresso; e le storie alle quali conducono gli indizi a loro volta rinviano ad altro ancora. Il numero delle campane, poi, rivela la dignità della chiesa: oratorio, parrocchia, collegiata, se rispettivamente dotata con una, due o tre campane. Ma al campanile si possono associare altri significati riconducibili ai confini della comunità (vedremo più avanti) e al suo valore di ponte mistico tra la terra e il cielo, così come tutto quanto si solleva dalla terra e presenta una forma a punta, come le mani giunte in preghiera. [15] Soffermiamoci su questo aspetto.

Dove comincia il cielo? Se il cielo inizia dove finisce la terra, allora i tetti delle case, i camini, per non dire i culmini delle alture, ma soprattutto i campanili, sono prossimi al confine con il cielo, e in certe ore e in certi mesi lo toccano.
Un lungo processo di addomesticamento all’immagine piana, bidimensionale – come quella di una terra che fugge, vista dal finestrino di un treno (peccato non sia questa, a land that escapes, la ragione etimologica di landscape, paesaggio), o schiacciata sullo schermo televisivo – ci fa percepire il cielo piatto e distante: volta celeste o superficie piana che si alza dal mare o dal profilo dei monti. Ma il cielo ha natura mistica prima che fisica: è la casa del Padre e delle anime in quiete, e lo spazio dove si muovono gli spiriti benigni dell’aria. A differenza di cosa suggerisce l’immagine appiattita e distante, nel mondo rurale il cielo inizia da qui, appena sulle nostre teste. E sulle nostre teste, il suo confine si contrae e si dilata come un mantice, come una fisarmonica: si alza al mattino con la dissoluzione della nebbia, e si abbassa la sera. Si dice: “cala la notte”, “scende il buio”; e quando le nuvole sono gonfie di pioggia si dice: “il cielo è basso”. Il cielo si alza e si abbassa: respira. Dove inizi, lo indicano gli uccelli quando volano, e il volo è più alto e disteso con il bel tempo, più basso e a spirale quando sta per piovere. E verso sera, come gli uccelli, il cielo scende e si avvicina fino a terra, si può toccare con una mano: come disegna con garbo una storia senza tempo, raccontata nell’alta Val Trebbia a mezza strada tra Genova e Piacenza, che qualcuno dice sia successa ai nostri giorni, qualcuno in un tempo antico; ma i racconti e gli eventi per le genti che non affidano la memoria alla scrittura sono magicamente simultanei, prossimi e quasi sincroni ai margini della memoria comunitaria: un po’ al di qua, ed è epopea; un po’al di là, ed è già mito. [16]

Tugnìn era salito con i suoi animali fino al pascolo sull’alpe, intanto alle sue spalle sorgeva la luna in falce, ed era così vicina che Tugnìn, stanco, ci appese il suo ombrello e poi si sedette a fumare un sigaro. Intanto la luna proseguì il suo cammino nel cielo e quando Tugnìn si alzò per riprendere l’ombrello lo vide ormai lontano. Quella notte la gente in valle guardava stupefatta la luna che portava a spasso l’ombrello di Tugnìn; e lui, per riprenderselo, dovette tornare sull’alpe la sera dopo. [17]

Quando al crepuscolo il cielo incomincia ad abbassarsi e dal profondo della terra inizia la polluzione di ombre – quelle ombre, venute su dal basso, come l’acqua della piena, [18] che si ritireranno solo con il ritorno del sole – allora anche il contatto tra i mondi è più stretto, ma anche più minaccioso. E come nella notte rispetto al giorno, così il cielo è più basso in inverno che in estate. Forse non è senza motivo che proprio dopo il crepuscolo e in inverno, verso il buio, nella prossimità di ombre e di presenze oscure, più facilmente si commettano azioni malvagie e oscene. [19] E forse alle ombre che affiorano nel crepuscolo corrispondono quelle del nostro inconscio che s’insinuano tra i pensieri e tra i sogni e portano incubi o immagini ambigue; come se quelle ombre fossero l’inconscio della terra.
Dopo il crepuscolo e nell’inverno il cielo e la terra sono più vicini, e in mezzo siamo noi e – scivolano intorno a noi – le anime in pena di chi si è spento senza pace o di morte violenta. D’altra parte, proprio dopo il crepuscolo e nell’inverno, quando e perché è più stretto il contatto tra i mondi, e dunque anche con il cielo, più facilmente si è incoraggiati alla riflessione e alla preghiera.

Sentitelo [il cielo ...] col bubbolo in una giornata novembrina. Il sentiero diventa un grandioso viale luccicante; i tetti indefiniti – tegole, coppi, muriccioli, abbaini e comignoli – tra la nebbia, il fumo e le nuvole, sono le cuspidi di un castello che sta in cima ad ogni altro che più in là non si può andare. Quando il cielo si sistema a quell’altezza, il mondo è al massimo intrecciato di collegamenti (ad altezza d’uomo), di conseguenza conosciuto e per questo amato. [20]

I campanili sulla punta portano la croce, collocata su un simulacro del mondo dove, a sua volta, è posata una ventarola: di frequente una piccola bandiera di ferro, ma nelle campagne non è difficile trovare ancora la sagoma di un santo, di un angelo oppure – in memoria del tradimento di Pietro, ma anche in funzione di vigilanza e protezione, e spesso collocato sul culmine della stessa croce – di un gallo, come si incoraggiava dopo la Riforma cattolica. [21] La punta del campanile è diretta al cielo, gli è vicina, lo tocca, e con la croce che lo attraversa mette in comunicazione il mondo visibile e quello invisibile. Così si può dire per l’altare, per le reliquie e, fuori dalla chiesa, per le altre punte che sostengono una croce: sono le cime di colli e vette (qualche volta tappa di rogazioni), ma anche le punte dei covoni dove si collocava una piccola croce e un nastro rosso[22] o comunque un corpo metallico, ché anche un barattolo della conserva rovesciato poteva servire all’uso.
Torniamo al respiro del cielo e alla notte che scende fino alle case quando, al termine del crepuscolo, si serra l’uscio con il ferro morto, si chiudono gli scuri delle finestre, e un tempo, dov’era possibile, si barrava la porta del villaggio. E l’uscio e la porta restano chiusi fino all’inizio dell’aurora quando, con l’avvicinarsi di una fioca prima luce, l’animale guardiano per eccellenza – ancora il gallo – con il suo canto ricaccia le ombre nel loro mondo sotterraneo e annuncia il ritorno del sole, a lui analogo come alla sua cresta i raggi luminosi. [23]
Così il poeta iberico Aurelio Prudenzio negli Inni quotidiani:

I demoni, si dice, vagano allegri per le tenebre notturne, mentre al canto del gallo fuggono impauriti da tutte le parti. Infatti l’odiato avvicinarsi della luce, della salvezza, della potenza divina rompe l’assedio delle tenebre e fa scappare i compagni della notte. [24]

Forse proprio per questa ragione, per questa funzione fondamentale, in campagna il gallo si tiene comunque e lo si uccide solo per sostituirlo con uno più giovane – ma non prima che siano terminati i raccolti –. [25] L’allontanamento delle ombre iniziato dal gallo è completato all’alba dalla campana dell’Ave Maria e mantenuto vivo da quanto, nel mondo rurale, ha funzione di protezione e allontanamento del male. Sono le figure del sacro teatro celeste, in particolare la Madonna o san Giuseppe, poste sulla soglia del villaggio o sull’uscio delle case. Sono le acquasantiere delle stanze nelle case rurali dov’è conservata l’acqua benedetta per segnarsi al mattino, appena dopo il risveglio, e la sera, prima di coricarsi. Sono i volti minacciosi, le chimere e i mascheroni sbozzati in basso o altorilievo sulle case o sui muri e rivolti verso le vie di accesso o verso il buio. Sono i pagliacci messi a braccia aperte in mezzo al campo. Sono le edicole e le cappellette poste sul trivio o sul crocevia, allegoria del dubbio, della scelta, della tentazione o del rischio di sbagliare strada (nella parte absidale, alcune cappellette hanno una piccola nicchia con un santo posto a fronteggiare la parte oscura del mondo). Sono gli oggetti benedetti, che farne un inventario sarebbe interminabile: penso ai pani azzimi con impresso il profilo di un santo o altri simboli religiosi, come l’effigie di sant’Antonio abate sulle gallette da appendere nelle stalle per proteggere gli animali rurali, o quella di san Rocco sulle micche da tenere in casa per conforto spirituale e protezione (e, quando bisogna, anche rimedio) contro le malattie.
Venendo meno la relazione con il mondo invisibile, anche nello spazio rurale i significati di sacramentali, oggetti benedetti, immagini di protezione, liturgie, nel tempo si diluiscono, smarriti e qualche volta invertiti nella loro parodia: le figure guardiane intorno alla casa sostituite da gnomi e balocchi, le sagome dei galli usate come decorazione spiritosa di villette e ristoranti, le feste sacre mutate in sagre paesane, e i pagliacci nel campo che a torto si crede nascano per tenere lontani passeri e corvi (ma i contadini sanno che per spaventare gli uccelli ci vuole ben altro). Venendo meno quella relazione, si dimentica la buona ragione di tenere un gallo per annunciare il ritorno della luce.

Benedicendo la terra della comunità
Sul margine del campo, lungo la strada bianca, qualche volta in mezzo al bosco, si possono trovare croci di legno senza iscrizione, senza dedicatoria. Se chiedete cosa sono, anche dai più anziani potete ascoltare spiegazioni diverse e vaghe: “ci sono sempre state”, “forse una volta lì è morto qualcuno”, “forse le hanno messe per grazia ricevuta”: queste le risposte più comuni che ho raccolto. Ma le risposte, nel mondo rurale devono essere prese con cautela. Tante conoscenze e tanti segni sono usciti dall’orizzonte percettivo delle persone, smarrite con la perdita del loro uso, e dalla memoria. E poi esiste una confidenza con il segreto, o per dire meglio con la riservatezza, che sono connaturate a un mondo che custodisce i suoi luoghi e si protegge dai curiosi e dai forestieri. A volte le risposte sono come le false tracce lasciate dalla volpe per confondere i cacciatori o, giustappunto, dai contadini per depistare gli studiosi alle prese con mondi per loro residuali e subalterni. Ironizza, solidale con loro quando inventano risposte, lo scrittore Giuseppe Lisi:

Eccoli col registratore. È pronta la nostra spazzatura? Essi la scambiano per miele e vanno via come l’avessero rubata. Perché essi credono che ogni cultura debba per forza produrre merce, e che quello sia l’unico scopo delle generazioni, fornire materiale agli antiquari, se povero ai rigattieri, antologie ai posteri e strame per le tesi di laurea. [26]

E poi ci sono cose intime che, a ragione, si teme possano essere intese come segno di arretratezza o superstizione, e non va bene che siano raccontate al primo che le domanda prima di capire se può capirle o anche solo accoglierle.
Le croci sul margine del campo, lungo la strada bianca, qualche volta in mezzo al bosco, spesso sono cos’ancora rimane dei circuiti delle rogazioni dove, in processione, partecipava tutto il paese, in testa la croce, poi le confraternite, il clero, le donne, i bambini, gli uomini in fondo.
Le rogazioni si tenevano nel giorno di san Marco (25 aprile) o nei tre giorni prima del giovedì dell’Ascensione. La lettura colta, quella che storicizza le manifestazioni del sacro e le espressioni liturgiche come lacerti o mascherature di tradizioni precedenti, suggerisce che, istituite nel V secolo da san Mamert, vescovo di Vienne, non siano che la copertura cristiana dei Robigalia – in onore della dea Ruggine, quando, intorno al 25 aprile, sul proscenio dello zodiaco tramonta l’Ariete e sorge il Cane, e gli effetti delle brinate sulle giovani colture possono essere disastrosi – e degli Ambarvalia (istituite in onore di Cerere, per propiziare i raccolti). [27]
Le processioni partivano all’alba dalla chiesa parrocchiale per tornare verso il mezzogiorno. Potevano toccare i limiti del paese, quelli che si possono raggiungere attraverso la strada, segnati da cappelle o edicole, per poi tornare alla parrocchiale: un giorno a levante, un altro a ponente. Oppure potevano perimetrare la parrocchia – volentieri, ho notato, in senso antiorario, [28] così da avere sempre di fronte il sole – toccandone i confini, anche per monti e boschi. Le processioni si snodavano attraverso la recita corale delle litanie dei santi che iniziavano con le invocazioni alla Madonna, poi ai tre arcangeli, quindi ai patriarchi e ai profeti – … omnes sancti Patriárchæ et Prophétæ: orate pro nobis / sancte Joannes Baptista: ora pro nobis / sancte Petre: ora pro nobis / sancte Paule: ora pro nobis … –, seguivano gli apostoli e i discepoli di Gesù, i martiri, i vescovi e dottori della Chiesa e via pregando, fino alla tappa, segnata da una cappella o una croce di legno in posizione elevata o di ampia vista, dove il sacerdote benediceva le case e le terre della comunità.

Il sacerdote si fermava e i fedeli si inginocchiavano. Indicava, quindi, con la croce processionale o con l’aspersorio i quattro punti cardinali, invocando, verso Oriente, “A fulgure et tempestate”, verso Occidente, “A flagello terremotus”, verso Mezzogiorno, “A peste fame et bello”. I fedeli rispondevano “Libera nos Domine”. Il sacerdote, infine, guardando verso settentrione, cantava “Ut fructus terrae dare et conservare digneris” e il popolo rispondeva “Kyrie eleison; te rogamus, audi nos”. [29]

In questo perivagare, si segnavano i raccolti, si scongiuravano i pericoli, si visitavano i confini e si confermavano alla comunità: non è raro che sui punti di confine le processioni di comunità vicine si potessero attendere e incontrare: i segni posti sui limiti delle rogazioni – come le croci, così le pietre di cippo e i santuari di confine [30] – vegliavano sulla comunità, la proteggevano dall’esterno, ma potevano fissare anche un punto di contatto e di riconciliazione fra terre liminali. E quella delle rogazioni era solo una delle forme rituali che permettevano alla comunità di elaborare simbolicamente, ritmando l’anno nelle sue cadenze, gli spazi dell’abitato.

Anche i riti invernali e primaverili profani (come la questua di Natale e il cantar Maggio) e i riti itineranti carnevaleschi hanno in comune con la funzione di conferma dei confini comunitari e di armonizzazione del loro rapporto con il mondo naturale esterno alla comunità, sia esso coltivato o selvatico. Questi riti che animano la vita del villaggio compongono un reticolo simbolico inscindibile dai mestieri che dissodano o rendono produttivi i campi e abitabili le case, e plasmano simbolicamente il territorio. [31]

Nel terzo giorno delle rogazioni

Ognuno portava delle croci fatte di legno e si mettevano sul sagrato della chiesa per far benedire, questo avveniva l’ultimo giorno. Le croci benedette si mettevano nei campi, li mettevamo nella vigna o dove ci capitava come segno di fertilità e di protezione. C’era una fede assoluta.[32]

Il rito di piantare sui margini del campo piccole croci benedette, fatte con canne intrecciate, e di versare un poco di acqua santa nelle buche scavate sui loro confini in molti luoghi era usato anche nel giorno della santa Croce (3 maggio).
Ecco, a un primo livello di lettura, cosa raccontano quelle croci di legno che, come pietre di termine, testimoniavano i confini delle comunità e oggi tacciono in luoghi e posizioni che appaiono senza significato.

Confini di suoni e di pietre
Laudo Deum verum, plebem voco, congrego clerum, defunctos ploro, nymbos fugo, festaque honoro[33] queste parole, o altre simili in molte varianti, s’incidevano sulle campane – o, in epigrafe, sul campanile – prime di benedirle, così da vincolarle, come per loro stessa ammissione, al proprio compito.
Le campane che scandiscono il giorno, annunciano le feste, chiamano i fedeli, mettono in fuga le ombre della notte, i demoni, la peste e le tempeste, segnano anch’esse un confine tracciato attraverso l’estensione dello spazio sonoro coperto dai proprio rintocchi. [34]
Mentre i regolamenti urbani sempre più spesso ne limitano l’espressione, nel mondo rurale le campane ancora dicono le ore e le loro frazioni, e segnano lo scorrere del giorno, dall’inizio al suo termine: l’Ave Maria all’alba, il Mezzogiorno (un tempo era quello vero, con il sole meridiano a picco sulla terra che corrisponde a poco dopo le 12:30 dell’ora solare), l’Ave Maria della sera (mezz’ora dopo il tramonto): il primo tocco è dato dalla campana della chiesa principale, poi in coda seguono le altre. Sono megafono della comunità, parlano un linguaggio localmente noto: segnalano i matrimoni, annunciano la festa e la sua celebrazione, informano sulla direzione del vento, chiamano la comunità verso il centro, avvertono degli incendi, talvolta dettano il tempo dei trattamenti sulle colture, accompagnano l’agonia e indicano – con modi e un numero diverso di rintocchi nelle diverse parrocchie, anche confinanti – se è morto un uomo, una donna, un sacerdote o un bambino. Il timbro della campana, il ritmo e il numero dei rintocchi informano dove qualcosa e cosa succede.
La campana, oltre a scandire il tempo della comunità e i suoi cerimoniali, segna uno spazio percettivo e un comune territorio sensoriale, corrispondente a quello della parrocchia che non conosce confini rigidi e giustapposti come quelli amministrativi; i suoi limiti si spingono fin dove vivono le anime che le appartengono: sono le persone che formano la parrocchia, non le case né i terreni (caso raro ma noto, si conoscono parrocchie senza territorio) [35]. Se il confine della parrocchia si spinge fino a dove arriva nitido e prevalente il suono della campana, e dunque fino a dove così si estende, come un mantello sonoro, come un’immensa ala, la protezione divina della quale il suono è messaggero, il rialzamento dei campanili – invece letto in chiave di politica locale – poteva significare la volontà di espandere il territorio e l’influenza di una parrocchia; e, d’altra parte, la mancata percezione del suono o la sua debole comprensione potevano legittimare istanze di secessione, come nel 1680 sostenevano gli abitanti di un villaggio del Genovesato

che per essere lontani dalla loro chiesa parrochiale di s. Biaggio di Garibaldo non sentono mai suonare le campane e molte volte in giorni di Domenica e festivi sono necessitati perdere la santa messa [36]

e per questo motivo (o, con questo pretesto) chiedevano al Serenissimo Senato di Genova di potersi staccare e costruire una cappella dove fare dire messa almeno in tutti i giorni festivi. [37]
Se il confine della parrocchia si può dire che si spinga fino a dove le anime sentono nitido e prevalente il suono della sua campana e fino a dove questo suono protegge quelle anime, diverso è il confine della comunità che, al di là delle definizioni amministrative, si spinge fino a dove il coltivo si associa al pascolo in comunaglia o incontra il selvatico; o, se si vuole, fino al limite dove arriva la domesticazione dello spazio incolto reso spazio rurale: limite che nelle aree montane è segnato dal margine estremo dei terrazzamenti ed è sempre interno al circuito delle processioni rotazionali. [38]

La domesticazione di nuove terre modifica i confini della comunità e, di conseguenza, ne modifica il percorso processionale e l’estensione del suo territorio visto e benedetto dai punti liminali: così lo spazio rurale diventa lo spazio consacrato della comunità e con questa veste rientra nell’ordine locale del cosmo. Anche i terrazzamenti e i loro muri a secco sono oggetto di un’attenzione religiosa comunitaria, benedetti come le stalle il giorno di sant’Antonio abate e le case in prossimità della Pasqua; e come sui portali delle case o al loro interno dove sussiste un angolo per la devozione, così sul margine estremo dei muri a secco, quello rivolto verso il selvatico, si possono trovare incise piccole croci, segni o figure di buon auspicio oppure di protezione. [39]

La consacrazione attraverso un atto rituale dello spazio selvatico “convertito” in domestico è dello stesso genere che ha accompagnato la conquista di territori inabitati e regioni selvagge. Osserva Mircea Eliade che «quando si prende possesso di un determinato territorio, cioè quando si comincia ad esplorarlo, si compiono riti che ripetono simbolicamente l’atto della creazione; la zona incolta è prima di tutto “cosmizzata”, poi abitata». [40] Tra i primi atti di colonizzazione di aree desertiche era il dissodamento della terra, atto che non era inteso «né colme un’opera originale, né come un lavoro umano e profano [... ma] soltanto la ripetizione di un atto primordiale: la trasformazione del caos in cosmo per opera dell’atti divino della creazione.
Lavorando la terra desertica, essi ripetevano infatti l’atto degli dèi che ordinavano il Caos dandogli forme e norme». [41] Solo ripetendo l’atto primordiale della creazione del mondo, i rituali di presa di possesso rendono reale la conquista.
Per contro, l’abbandono porta alla sconsacrazione dello spazio: succede alle case quando non sono più abitate e durante l’anno non vi si accende più il fuoco neppure per un giorno; succede alle chiese quando durante l’anno non vi si dice almeno una messa; e succede ai campi lasciati all’incolto e, nel tempo, ridivenuti gerbidi. Per questo motivo, per il riuso o la ricostruzione di una casa, di una chiesa e di un campo non basta un’operazione di restauro, ma occorre un rituale di riconsacrazione, un atto di benedizione, ancora più potente quando è tutta la comunità a concelebrarlo.
Il “cerchio” della comunità è anche quello dov’è più fitto il reticolo dei nomi dati ai luoghi – per quanto minimi, come un angolo, una panca o una pietra –, ed è tanto più fitto quanto minore è la distanza dal campanile, come se questo ne rappresentasse l’asse: anche la densità dei toponimi usati effettivamente e attualmente dalla comunità disegna un limite. Oltre questo limite, i nomi dei luoghi diventano radi e designano spazi estesi; eppure, benché radi, oltre il confine comunitario i nomi ci sono e, solo per questo, rendono familiare alla percezione cosa non lo è alla zappa o al passo, o non lo è più. L’abbandono riduce quel reticolo, mentre la domesticazione lo infittisce: in entrambi i casi i nomi dei luoghi, nel passaggio dal colto all’incolto e al contrario, possono cambiare e questo cambiamento ha la forza di un rito di esclusione o di inclusione. Nominare un luogo o farne terra di affabulazione, anche se solo per tenerlo distante o per esorcizzarlo, è comunque un modo per renderlo o mantenerlo familiare e dunque per ricondurlo al “cerchio”: unire a un luogo un nome o, allo stesso modo, una leggenda sono, in questo senso, atti “religiosi” di grande e reale efficacia. Osserva Joseph Campbell:

I norvegesi che nel nono secolo d. C. conquistarono la desertica Islanda, diedero un valore mitologico a quel nudo paesaggio. Lamd nàm, terra che reclama o prende, era il termine tecnico per designare questo tipo di santificazione di una regione che veniva così convertita in terra santa simbolica, a un tempo psicologicamente e metafisicamente. [42]

Nella mappa spirituale della comunità gli spazi consacrati dagli uomini si aggiungono a quelli considerati sacri – interni, ma più spesso esterni ai confini degli ambiti abitati e rurali – e così riconosciuti perché lì si è manifestata la divinità o perché lì – per loro natura (fonti, vette, boschi, grotte …) o per destinazione (altari, luoghi di sepoltura …) – è possibile il contatto fra i mondi e il tempo appare quasi come un’illusione. È proprio

dentro questa mappa spirituale che la qualità dei luoghi cambia in profondità e, sacro o consacrato, lo spazio diventa semplicemente spazio reale e cessa di essere un’astrazione geometrica. [43]

Lo spazio della comunità è mobile e i suoi confini continuamente mutevoli, e non solo per la colonizzazione di nuovi spazi o per l’abbandono di quelli già occupati. Come il respiro del cielo che si posa al crepuscolo e si solleva con l’aurora, ed è più basso nell’inverno che nell’estate, così lo spazio comunitario si allarga di giorno e si restringe tra le case di notte, si espande ai coltivi aperti e ai pascoli fino agli alpeggi nell’estate e si restringe, dopo la dismissione autunnale dell’orto, fino ai focolari delle veglie e di casa.
È un continuo respirare su un asse verticale rispetto al cielo e su un asse orizzontale rispetto alla terra.

Osservazione
Abbiamo incontrato e toccato alcune “spie” di relazioni che animano il piano orizzontale della comunità e altre che animano quello verticale con la trascendenza ancora visibili nelle campagne, meno visibili quanto più ci si avvicina alle città, che ci raccontano di legami profondi, talvolta di unione mistica, con il cielo, con il tempo e con i luoghi: l’ordine dei posti in chiesa, la punta dei campanili, le croci nei campi e in mezzo ai boschi, il linguaggio delle campane, le benedizioni sui terrazzamenti.
Sono partiti da segni, oggetti, comportamenti, perché nel mondo contadino anche la metafisica è concreta, come i simboli che ne tracciano i sentieri. E non c’è spazio per l’astrazione fuori dai cinque sensi, fuori da una misura che nasce dall’osservazione, dall’imitazione e dall’uso, fuori da una relazione con il tempo e con lo spazio informata dalla circolarità, dalla sincronia, dalla ripetizione, dal ritmo che scandisce e dice amen, ma aperta all’analogia, alla discontinuità e a ciò che a una mente cartesiana e consequenziale si può manifestare come paradosso o assurdità. Forse ho osservato tutto ciò con cuore partecipativo più che con sguardo di antropologo (ma quel cuore e questo sguardo non si escludono), e su questo sia permessa un’osservazione di respiro generale che vale come conclusione, ma anche come chiarimento.
Quando riflettiamo su qualcosa riflettiamo quello che abbiamo dentro, e parlandone parliamo anche di noi: è quasi inevitabile. E va bene fare così quando abbiamo a che fare con cosa ci tocca interiormente ed è per noi importante; come per me sono gli orizzonti del sacro e dello spazio rurale. Senza partecipazione emotiva, si rischia di guardare il fuoco della nostra riflessione come gli entomologi guardano gli insetti: schiacciati tra due vetrini; dietro le lenti di un microscopio; facendone oggetto di tassonomia e dissezione; oggetto di studio asciutto e freddo come un inverno di desolazione o come il rigido riduzionismo della scienza, oggetto trattato con distacco o, al meglio, con atteggiamento di benevola tolleranza. Quella tolleranza, così prossima all’indifferenza, che applicata agli orizzonti del sacro e dello spazio rurale è viatico di scomparsa e apre i musei delle culture altre e di cosa non c’è più o è decretato che è ancora ma per presto non essere più.
Dubito che si possa raccontare qualcosa di autentico sulla dimensione del sacro e del mondo rurale senza partecipare in qualche misura a quella dimensione e senza condividere in qualche misura i valori, il linguaggio e la diffidenza di quel mondo. Per entrare in un dramma bisogna in qualche modo farne parte: il resto è solo una poltrona in una platea più o meno distante dalla vita che si osserva. E chi è esterno alla dimensione del sacro, di un tempio può vedere e dire solo coordinate architettoniche ed estetiche [44] e in un rito vedere e dire solo sequele di gesti e formule da comparare con dottrina e buone maniere, e – seguendo il filo di questo paragone – del mondo rurale vedere e dire solo il lato consumistico del folclore, collezione di fenomeni, o un teatro di etologia (o di “entomologia”) umana.

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Revisione della comunicazione presentata, con il titolo “Il sacro nella lettura dello spazio rurale”, al “II Seminario Zolla: Le vie della conoscenza tra la montagna e le acque” (Chiusa/Klausen, Museo Civico, 25-29 luglio 2011), già pubblicata su «Conoscenza Religiosa», II (2011), 2: 15-35.
Ringrazio Grazia Marchianò per le osservazioni che mi hanno permesso di meglio definire la distinzione tra approccio ontologico e approccio semiologico, per quanto riguarda la comprensione del simbolo.

[1]      A place in the age of space: così nel 2001 Ivan Illich, teologo e teorico dei controeffetti delle istituzioni, titolava una riflessione su questa differenza durante un incontro – “Risveglio: della terra e della cultura rurale” (Genova, Convento di santa Maria di Castello, 7-8 luglio 2001) – dedicato alla cultura rurale, osservando che sotto la “dittatura” del monoteismo scientifico la nozione di “luogo” sempre più spesso è sacrificata a vantaggio di quella di “spazio” e a questa impropriamente ricondotta.
[2]      Su questi argomenti, riprendo e ripenso temi che avevo toccato in precedenti interventi: Angelini, 2004, 2005, 2010a.
[3]      Florenskij, 1922 / 2008: 48.
[4]      Avevo abbozzato un tentativo di “glossario”, pensato in forma divulgativa, in Angelini e altri, 2004.
[5]      Giacomelli, 1995: «La chiesa parrocchiale col suo santo patrono e il suo campanile totemico regola tutta la vita degli individui e della comunità, dal battesimo all’eucarestia, dal matrimonio alla morte e alla sepoltura che avviene nella stessa chiesa o nell’ambiente immediatamente circostante» (p. 84).
[6]      La raccolta dei dati sulla configurazione dei posti in chiesa risale a una ricerca che avevo curato tra il 1992 e il 1994, nel Genovesato (prevalentemente in Val Graveglia), non pubblicata.
[7]      Sulla configurazione dei posti in chiesa, ho trovato pochi esempi utili per un confronto; tra questi ricordo la testimonianza di Gough, 1702 e il saggio di Stahl, 1989.
[8]      Sarnelli, 1686, cap. XV; Clericato, 1700 / 1718, decr. XIII.
[9]      Borromeo, 1577, cap. XXIV-XXV.
[10]    Sull’orientazione delle chiese e, più in generale, sul valore simbolico della sua forma e dei suoi elementi, Hani, 1978.
[11]    Borromeo, 1577, cap. XXIV-XXV: «Pars vero mulierum septentrionalis sit, nisi quibus in ecclesiis, pro ratione situs aliave causa, Episcopus aliter statuerit».
[12]    Sarnelli, 1686: «Ma nella Chiesa di Christo stimata fu la sinistra [rispetto all’altare] più degna della destra, perché in essa si mutò, secondo la benedizione patriarcale data da Giacob ad Efraim e Manasse, l’ordine, in tal maniera, che per ragione di dignità e di benedizione, la sinistra venne a cambiarsi in destra e la destra in sinistra» (cap. XV).
[13]    Garibaldi, 1791.
[14]    Stahl (1989: 28) aggiunge fra i criteri che determinano il posto in chiesa nello spazio delle donne anche «l’età, il fatto di essere sposata, gli anni di matrimonio, l’aver messo al mondo dei figli».
[15]    Incontriamo un richiamo alla realtà mistica dello spazio sacro in un’illuminante nota in E. Zolla (1995 / 2003: 37): «Il vero viaggio era dei pellegrini alla volta di un santuario. In apparenza s’inerpicavano su per un’erta, ma in realtà si stavano sollevando aldisopra del mondo; in apparenza entravano nel santuario sulla vetta, ma in realtà penetravano la tenebra abbagliante del divino. Sembrava che percorressero tappe d’un periplo terrestre, ma nell’intimo loro era come se s’inoltrassero tra le stelle. Il sentiero di Compostella era la Via Lattea, le cattedrali mariane fra Chartres e Laon disegnavano la costellazione della Vergine, il Campo dei Miracoli a Pisa riproduceva il segno dell’Ariete».
[16]    Ciò che vive oltre i margini della memoria collettiva, proprio attraverso il mito, rientra in un’altra forma dentro quei margini; così potremmo dire, in relazione allo spazio invece che al tempo, anche di ciò che vive, ignoto o dimenticato, oltre l’orizzonte percettivo comunitario.
[17]    La storia è stata raccolta ai Barchi di Gorreto (GE) da Mariano Garau che me l’ha riferita nel 1984.
[18]    Lisi, 1972: 78.
[19]    D’Arzo, 1952 / 2008.
[20]    Lisi, 1987: 19.
[21]    Sarnelli, 1686 (cap. L, 14): «La cima del Campanile non sia triangola, ma rotonda, e piramidale nella cui sommità (per lo mistero, che vi è) via sia fermamente affissa la effigie del Gallo, che sostenti la Croce».
[22]    Lisi, 1987: 18.
[23]   Cattabiani, 2000 / 2010: 211 e ss. Anche Giuseppe Lisi (1979: 81): «Come al gallo la cresta è l’abbagliante dentata aurora che lo rende Re e gli dà corona, così il carbonchio allumato, la cresta scarlatta e la lampa sono i baleni del nuovo fulmine che provocano il risorgente».
[24]    Prudenzio: 68.
[25]    Lisi, 1972: 136-137.
[26]    Lisi, 1987: 50.
[27]    Ne parla Ovidio nei Fasti: libro I, capitolo VI (sulle feste in onore di Cerere) e libro IV, capitolo VI (sui riti per placare Ruggine).
[28]   Sul senso antiorario di alcuni percorsi processionali, si trovano numerosi esempi nella letteratura dedicata ai simboli, alla ritualistica e alla storia dei culti. Scrive Maria-Gabriele Wosien (2006 / 2007: 78), in un brano sulla danza rotante dei dervisci: «Lo sheikh guida la processione, percorrendo la circonferenza della danza in senso antiorario (come avviene in tutte le circumambulazioni attorno a luoghi sacri nel Vicino Oriente e nella ka’ba».
[29]    Rosati, 1997: 14.
[30]    Sulle rogazioni e sui santuari di confine, Angelini, 2010b.
[31]    Paolo Ferrari, comunicazione personale. Su questi argomenti, Ferrari, 2008: 77-95.
[32]    Testimonianza raccolta in Monfasani e Altre, 2007: 37.
[33]   «Lodo il vero Dio, chiamo il popolo, riunisco il clero, piango i morti, allontano le tempeste, onoro le feste».
[34]    Su questo punto, Murray Schafer, 1977 / 1985: 82.
[35]    Claudio Rosati (1997: 15) riferisce della chiesa di san Michele, nel castello di Serravalle Pistoiese, che nel secolo XV fu presa in giuspatronato ed costituita in parrocchia da 5 famiglie, benché senza territorio e pur trovandosi a pochi metri di distanza dalla parrocchiale di santo Stefano.
[36]    Notaio Antonio Podestà, 16 giugno 1680, in Archivio Notarile di Chiavari (GE), coll. E.73.1.
[37]    C. Garibaldi, Annali, citato: 415 ss.
[38]    Sulla retrocessione dell’incolto messa in scena durante le processioni rogazionali: vedi, sopra, Sul bordo di una fascia.
[39]    Stesso capitolo. Sulla consacrazione dello spazio rurale: Dupre Raventos e altri, 2008.
[40]    Eliade, 1949 / 1989.
[41]    Stessa opera.
[42]    Campbell, 1986 / 2003: 73.
[43]    Panikkar, 2002.
[44]   Pensiamo cosa succede oggi nella costruzione delle chiese, quando sono progettate in assenza o in carenza della partecipazione all’orizzonte del sacro: nel migliore dei casi, le chiese pensate da architetti agnostici o razionalisti sono esercizi d’arte architettonica, possono suscitare ammirazione, non fede. Klaus Gamber (1993), riguardo a chiese come queste, scriveva: «La maggior parte di esse sono delle costruzioni puramente utilitaristiche [...]. Dal punto di vista tecnico non manca niente: hanno una buona acustica e una perfetta aerazione, sono ben illuminate e facili da scaldare. L’altare si può guardare da tutti i lati. Tuttavia queste chiese non sono delle case di Dio, nel vero senso della parola, non sono uno spazio sacro, un tempio del Signore [...]. Sono delle sale di riunione dove non si va più al di fuori dei momenti dedicati alle funzioni. Degne compagne degli “alveari” e dei “depositi umani” quali sono i fabbricati delle periferie delle città». Su un altro piano, riferendosi alla pittura di icone, Pavel A. Florenskij (1922 / 2008: 50-51) osservava: «Come può dipingere un’icona chi non solo non ce l’ha davanti, ma non mai neanche visto l’archetipo oppure, esprimendosi in linguaggio pittorico, il modello dal vivo di quell’icona?».


 


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